Quando il cuore della natura…si scopre matematico
Nel secondo libro dei Sermones, Quinto Orazio Flacco descrive lo stile di vita a tavola dei romani del tempo, tra eccessi di frugalità e opulenza
Leggere Orazio per la prima volta lascia stupiti per il tono semplice, vivace e diretto con cui il poeta attraverso la sua satira riusciva a descrivere abitudini e tratti caratteriali di amici, conoscenti e personaggi illustri che si percepiscono familiari, a tal punto da dimenticare che la loro età si aggiri intorno a ben 2000 anni! Ovviamente il nostro amico Orazio, che se ne andava a passeggio per la Via Sacra - quella che dal foro sale verso il Campidoglio - immerso tra i suoi aristotelici pensieri è Quinto Orazio Flacco, poeta romano del I secolo a.C.
Nel secondo libro dei suoi Sermones, grazie alla seconda, quarta e ottava satira, e con l’ausilio di personaggi quali Ofello, Cazio e Nasidieno di cui descrive le abitudini alimentari e lo stile di vita, riesce ad offrirci un resoconto dettagliato degli alimenti che venivano portati sulla mensa dai dominus romani, che potevano seguire una linea più o meno opulenta.
I pasti dei romani erano suddivisi in 3 momenti nell’arco della giornata. S’iniziava la mattina con la colazione, ossia lo IENTACULUM, costituita da pane, formaggio, frutta e miele; a mezzogiorno seguiva il PRANDIUM, in cui ci si manteneva piuttosto leggeri, e si consumavano pane, salumi, uova, frutta e avanzi del giorno prima, spesso velocemente in piedi; infine arrivava il momento del pasto principale della giornata, ovvero la COENA, che iniziava tra le tre e le quattro del pomeriggio, e in caso di grandi festeggiamenti poteva protrarsi fino all’alba.
La coena era divisa in 3 momenti 1) GUSTATIO, il momento degli antipasti; 2) PRIMAE MENSAE, in cui si consumavano carni o pesce, le portate principali; 3) SECUNDAE MENSAE, ossia il momento del dessert in cui si consumavano dolci e frutta e a cui seguiva subito la parte ludica, accompagnata da conversazioni e vino a volontà. Tutto ciò si svolgeva nella sala da pranzo in cui tavoli ovali o rettangolari accoglievano le vivande, e attorno ai quali i lecti tricliniares permettevano ai commensali di consumare il pasto da sdraiati su un fianco, poggiando il braccio sinistro e attingendo con il destro ai cibi e al vino.
Ovviamente la ricchezza delle portate, la maestosità della casa, la qualità del vino offerto e la messa in scena della parte ludica erano commisurate al censo: la maggior parte del popolo seguiva uno stile alimentare frugale, mentre il ceto più elevato era solito rimpinzarsi. Proprio facendo un confronto tra le mense proposte dai tre personaggi presentati da Orazio, si può fare un viaggio gastronomico che non solo racconta i prodotti alimentari del tempo ma di una vera filosofia di vita a tavola. Ed ecco che allora si parte dalla frugalità di Ofello, per poi passare alla raffinatezza di Cazio e concludere con l’opulenza e gli eccessi di Nasadieno.
Iniziamo ad esaminare la mensa di Ofello, contadino di Venosa dotato di una rozza ma efficace saggezza, che elogia la vita semplice e frugale della campagna mettendola in contrapposizione con le raffinatezze della vita di città; del resto il miglior condimento per lui è la fame, e i cibi semplici preservano la salute, chi è morigerato può permettersi di fare uno strappo; il crapulone invece, rimpinguandosi con più frequenza, rischia le cuoia. Il sagace contadino Ofello se la prende con chi si innalza ad intenditore, credendo di sapere a colpo d’occhio se un pesce viene pescato in alto mare, o presso la foce del Tevere; commenta i mutamenti nei costumi alimentari romani che vengono corrotti dopo le guerre con Cartagine, aumentando sempre più la ricerca del cibo esotico.
La frugalità non implica la mancanza di scorte, ed in caso dell’arrivo di un ospite nella sua dispensa non manca carne di cinghiale frollata che si conserva più a lungo; in caso non si possano reperire scorte - ci dice il saggio contadino - un pezzo di semplice pane e sale può placare la fame, poiché il gusto non risiede nel profumo di costose vivande ma nel proprio appetito. Quindi Ofello cosa mangiava? Legumi, più zampetto di prosciutto affumicato, raramente faceva banchetti, e nella prima mensae al pesce preferisce il pollo e il capretto, e per dessert noci e fichi secchi; nessuna dotta conversazione, solo vino bevuto in allegria senza sottostare a leggi di magistrali convivi.
Per descrivere le portate che si confacevano ai veri intenditori, Orazio ci propone le ricercatezze gastronomiche di Cazio. Questo personaggio ci dà una vera e propria lezione sull’ars cenandi, rispettando le tre fasi delle cena romana. Iniziamo dalla GUSTATIO: le uova vanno scelte di forma allungata, più saporito il loro albume perché contiene un tuorlo maschio; tra gli ortaggi da preferire il cavolo cresciuto sui terreni secchi, insipido quello annaffiato negli orti. Cazio inserisce nei suoi antipasti i funghi, che erano visti con diffidenza dai più poiché difficile era riconoscere quelli commestibili. Tra quelli di bosco e i prataioli, ad esempio, l’esperto buongustaio ci suggerisce quelli di prato poichè non si rischia.
I molluschi pregiati offerti durante la gustatio erano le vongole veraci del lago lucrino, le ostriche più ricercate quelle del Circeo, e i ricci di mare indiscutibilmente di capo Miseno; e ancora, la città di Taranto quella che vantava i più gustosi pettini di mare, ossia le capesante. Per accompagnare ciò si usava quello che i romani chiamavano MULSUM (sciroppo di miele misto a vino) considerata non solo come una bevanda, ma come vera e propia medicina capace di favorire la digestione e stimolare l’appetito. Cazio usa un FALERNO non troppo robusto per non danneggiare la circolazione!
Passiamo ai cibi delle primae mensae: che siano carni o pesce, cosa fondamentale è conoscere la filosofia dei sapori, ossia quali salse abbinare in base all’alimento prescelto, il che preclude la conoscenza di ciò che si sceglie per far sì che gli invitati non si appesantiscano troppo e non rimangano fiaccamente sdraiati sul triclinio. E quindi i consigli fondamentali che il sapiente Cazio tramanda sono: la bontà del pesce dipende dalla bontà e dalla quantità di olio con cui lo condiamo; il cinghiale - protagonista di tutti i banchetti romani - doveva essere di montagna e non di pianura, poiché il primo si ciba di ghiande di leccio che ne rendono compatta e saporita la carne; anche la selvaggina veniva gradita sulla mensa, e i romani erano soliti allevare lepri, cervi, caprioli.
L'intenditore sconsiglia i caprioli allevati sui vigneti soliti nutrirsi di pampini, che conferiscono un sapore poco gradevole alla carne. Ogni buongustaio che si rispetti ha una sua specialità che imprime la marcia in più al banchetto, e Cazio non si smentisce proponendo una "doppia salsa": mentre per realizzare una salsa semplice si tagliava del vino, con olio dolce e salamoia, nella versione duplicis la salamoia deve provenire da Bisanzio, deve far puzzare il barile dove è contenuta (questo è decisivo!) e la salsa dovrà essere bollita con aggiunta di erbe aromatiche tritate e zafferano di Corico, poi lasciata riposare e infine con aggiunta di olio di Venafro;
Ma veniamo alla frutta: le mele dovevano essere picene per il sapore, miste a mele di Tivoli per il loro bell’aspetto, l’uva (vennucula) veniva conservata in vasi di terracotta, mentre l’uva di Albano andava fatta essiccare al fumo, e il tutto veniva annaffiato dal vino laziale Massico prima esposto a cielo sereno in modo che l’aria notturna faccia svanire l’aroma forte e le impurità, senza filtrarlo perché se ne perderebbe il sapore genuino. Altri vini celebri ai tempi come Falerno e Sorrentino venivano trattati con uova di piccione, il cui tuorlo trascina via le impurità.
Ultima tappa gastronomica è lo stupefacente banchetto di Nasadieno. Orazio ci presenta l'originalità del personaggio attraverso la stravaganza delle sue portate. In primis, con lui non esiste più un ordine di presentazione specifico: s’inizia a mezzogiorno non con la gustatio ma con la commisatio, uno sconvolgimento totale della cena. In questo delirio di originalità scorrono vini pregiatissimi il Cecubo e il vino di Chio, puri senza esser mescolati con acqua come era d'uso maggiore in Grecia (utilizzando anche acqua di mare).
Nella fase della gustatio che era quella in cui ci si manteneva più leggeri, Nasadieno fa servire un intero cinghiale con contorno di ravanelli, radicchio, carote e salsa di pesce. Dopo un inizio così le portate a seguire non potevano essere meno d’effetto, e quindi grazie alla bravura del cuoco gli invitati credono di mangiare portate che in realtà sono più semplici di quello che credano, comprendendo in spessi casi, ad esempio, il quinto quarto di carni e pesci.
Anche Nasadieno è uno specialista delle salse: ad esempio le insaporisce con i ricci di mare, "rigorosamente non lavati" poiché ciò che rilasciano è più saporito della salamoia. Tra gru servite in pezzi accompagnate da farro, merli e colombacce, gli ospiti arrivano a sfinimento e non toccano più cibo. Orazio senza dubbio vuole rappresentare il rapporto che i romani avevano con il cibo: i suoi tre personaggi rappresentano tre stili di vita, e attraverso la descrizione più o meno accentuata di alcuni comportamenti od esternazioni,v elatamente il poeta contrappone la vita semplice e frugale della campagna, dove non si cerca il superfluo ma l’essenziale senza far troppo rumore, agli eccessi di una Roma che era diventata una metropoli fragorosa influenzata dalle mode, in cui si cercava già la spezia più pregiata e il garum più prestigioso.
Dal canto suo, Orazio era un'amante della campagna, preferendo stare lontano dalle regole dei conviti; preferiva mangiare vicino ad un ruscello e ritrovarsi a far chiacchiere genuine con gli amici, e la sua alimentazione era prevalentemente vegetariana, costituita essenzialmente da legumi e verdure dell’orto. Orazio viveva in semplicità sia quando era nelle sue amate campagne, sia quando rientrava a Roma: descriveva le sue giornate dicendo "vado solo soletto dovunque mi piace, chiedo il prezzo del farro e dei legumi, percorro il circo ingannatore e spesso il foro a sera; mi fermo, riguardo gli indovini, e alla fine torno a casa a un piatto di frittelle, porri e ceci".
Cosa ci starà dicendo? Probabilmente che la serenità è nutrita da semplici gesti, così come la capacità di seguire il proprio modo di essere e di non farsi influenzare da mode e tendenze alimentari del momento, che spesso rasentano il ridicolo e fanno perdere di vista (ancor più oggi) il reale senso dell'atto del mangiare. Badare all’essenziale nutre lo spirito, mentre nutrirsi bene assecondando i tempi della natura fa vivere felici e in salute!
Photo via Flickr / Canva
Scritto da Francesca Di Giammarco
Buongustaia di nascita, gastroamatrice per indole, la sua curiosità per le materie prime, le preparazioni e il mondo del food la fanno approdare a scienze e culture enogastronomiche all'Università di Roma Tre. Da qui in poi, il "menù" delle sue esperienze è sempre in nuova e appassionante costruzione.
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