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Sono preziosi perché provengono dal mare: ecco cosa hanno a che fare i molluschi con il mondo tessile sin dall'antichità
La porpora
Fin da bambini ci hanno insegnato che il popolo dei Fenici ci ha lasciato in eredità l’alfabeto. Ma l’esportazione di quest'ultimo in tutto il bacino del Mediterraneo si affianca ad un grande interesse di questo popolo, quello per la porpora. Questa è il pigmento che si estrae dal murice comune, un mollusco gasteropode che possiede una ghiandola piena di liquido vischioso di colore violaceo utilizzato per colorare i tessuti.
Nel I millennio a.C. la ricchezza del popolo fenicio si basava proprio sulla manifattura della porpora; il termine “fenici” si fa infatti risalire alla parola greca phoinix che vuol dire “rosso porpora” . I Fenici producevano anche un pigmento color indaco detto “blu reale” che ottenevano dagli stessi molluschi usati per la porpora. Nella sua opera Naturalis Historia redatta nel I secolo a.C., Plinio il Vecchio descrive in modo dettagliato l’estrazione della tintura dai molluschi. Si estraevano grazie ad un uncino le ghiandole dai molluschi grandi mentre quelli piccoli venivano frantumati e l’amalgama ottenuto veniva messo in acqua salata e riscaldato per dieci giorni. Lentamente da questo impasto filtrava una sostanza inizialmente incolore ;poi, grazie ad una reazione fotochimica la sostanza assumeva colore viola porpora quando a contatto con l’aria e la luce solare.
Siccome da un singolo murice si ottengono sole poche gocce di porpora, la produzione di grandi quantitativi della preziosa tintura richiedeva tantissimi molluschi. Ed è proprio dai loro resti che gli studiosi sono risaliti ai luoghi in cui avveniva l’estrazione del prezioso pigmento; alcuni antichi autori descrivono inoltre l’odore nauseabondo che si sprigionava dalle migliaia di molluschi lasciati marcire in grandi tinozze; infatti queste erano ubicate in luoghi lontani dalle città. La porpora rappresentò la fortuna delle città di Tiro e Sidone così come di molte altre città in Grecia, Spagna, Italia e Nord Africa che traevano grande profitto dal commercio dei tessuti colorati .
Dall’epoca dei Fenici e qualcuno dice anche dei Cretesi ancor prima, la porpora era il colore della vita e un simbolo di forza e vigore oltre che di ricchezza e prestigio e il suo valore commerciale è sempre stato assai elevato. Quando i Fenici furono sottomessi alla Grecia, a partire dal IV secolo a.C, e successivamente ai Romani, gradualmente la loro civiltà si estinse, ma la tecnica della manifattura della porpora fu adottata durante l’Impero Romano e rimase simbolo di regalità per molti secoli successivi .
Lo stesso Carlo Magno si fece seppellire avvolto in un sudario tinto con la porpora. A Roma i senatori avevano la toga orlata dal bordo porpora e la toga dell’imperatore aveva anche dei ricami di porpora. Ancora oggi si ritrova il significato della pregiata tintura nel colore del mantello e la berretta dei cardinali che si definiscono appunto “porporati” . Molto diffuso il colore porpora anche nella pittura come accade ad esempio nelle sfumature dei drappi del capolavoro del Caravaggio “La morte della Vergine” e in numerosi altri maestri della pittura moderna e contemporanea. Anche l’araba fenice , il mitologico uccello che rinasce dalle proprie ceneri ha il piumaggio color porpora che è associato al colore delle fiamme che avvolgendola la vedevano poi rinascere quale simbolo di eterna immortalità.
Il bisso della Pinna nobilis, regina del mare
La Pinna nobilis detta anche nacchera o pinna cozza è il più grande dei bivalvi del mar Mediterraneo, una specie di incrocio tra una cozza ed un’ostrica che può raggiungere anche un metro di lunghezza e vivere fino a 20-25 anni. Dal 1992 la sua raccolta è vietata ma un tempo il mollusco si mangiava cotto come una bistecca. E’ però anche rischioso mangiarla perché accumula grandi quantità di inquinanti e patogeni dal mare. Il suo ruolo, simile a quello di altri bivalvi, consiste nella filtrazione dell’acqua circostante; la pinna inoltre contrasta anche l’erosione dei fondali perché come un’impalcatura accoglie piccoli molluschi e crostacei e per questo è una specie protetta (si è parlato recentemente del ritrovamento di alcuni esemplari vivi nel Mar Piccolo di Taranto).
Gli amanti di esplorazione subacquea possono avvistarla facilmente, fissata saldamente alla sabbia o alla roccia dalla parte appuntita della sua conchiglia triangolare e spesso mimetizzata tra le praterie di poseidonia a pochi metri dalla superficie e fino a 40-60 metri di profondità. Come il murice la Pinna nobilis, questa grande cozza di colore bruno rossiccio, più trasparente quando non è adulta, possiede una preziosa ghiandola che secerne una sostanza cheratinosa che si solidifica a contatto con l’acqua producendo un bioccolo marrone, il bisso, che le serve per ancorarsi al fondo resistendo alla forza delle onde.
Questa barba incrostata di alghe e piccoli crostacei quando viene lavorata da sapienti artigiani diventa propriamente bisso, la preziosa seta di mare. Oggi è rimasta una sola maestra della lavorazione del bisso, la signora Chiara Vigo che vive a Sant’Antioco in Sardegna ed ha imparato a filare la seta marina da sua nonna Leonilde. Non è affatto semplice far sì che la fibra grezza diventi bisso e per ottenere un chilogrammo di bisso occorrono circa 1000 conchiglie. Dopo la raccolta la fibra va lavata e pettinata, poi immersa in succo di limone prima di procedere alla filatura; il filo sottile come un capello diventa soffice e dorato e il tessuto che se ne ottiene è molto resistenze e duraturo.
Le vesti di bisso pare fossero destinate al clero e agli imperatori e che venissero tinte di rosso per le occasioni speciali. Sono stati i Cretesi, i Fenici e poi gli Egizi i popoli che hanno segnato la storia del tessuto proveniente dal mare. I fili di bisso erano anche ricamati e intessuti su stoffa. Con i Greci la tecnica della lavorazione si è diffusa nell’Italia meridionale soprattutto in Puglia e in Sardegna.
Nel XIX secolo i manufatti in bisso comparvero nelle grandi esposizioni commerciali a Parigi, Londra e Vienna, venduti a caro prezzo. A partire dal XX secolo la produzione della seta marina è gradualmente scomparsa, la fibra è stata sostituita dalla seta e dal nylon ma l’interesse per questo manufatto artigianale è parte del patrimonio culturale e i segreti della sua lavorazione sono ancora custoditi a Taranto e a Sant’Antioco di Sardegna dove la signora Vigo, come ha giurato alla sua nonna, non compra né vende bisso ma si fa testimone della sua lunga storia.
Scritto da Elena Stante
Laureata in Matematica nel 1981 presso l’Università degli Studi di Bari, dal 1987 insegna Matematica e Fisica presso il Liceo Ginnasio Aristosseno di Taranto .
Ha partecipato ai progetti ESPB, LabTec, IMoFi con il CIRD di Udine e a vari concorsi nazionali e collabora, con la nomina di Vice Direttore, alla rivista online Euclide, giornale di matematica per i giovani.

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