Tratta da “La cucina delle monache” di S. B. Calzolari
Vi raccontiamo la storia del perché siamo conosciuti a livello internazionale con l’appellativo di “mangiamaccheroni”
L’argomento su cui vogliamo soffermarci oggi è la pasta, alimento tanto amato da noi italiani che ne abbiamo fatto un emblema mondiale, tale da contraddistinguerci in qualunque parte del mondo ci si trovi, spesso anche con appellativi che sanno di dispregio, come il famoso “mangiamaccheroni” (o anche mangiaspaghetti). Ma da dove hanno avuto origine questi termini?
La pasta, sia fresca che secca, si afferma nell’ Italia centro meridionale come sostitutiva del mais, della patata e, volendo, del pane, tra il 1700 e il 1800. Della pasta fresca si hanno notizie di produzione già al tempo dei Romani e nell’antica Cina: il prodotto era facile e sbrigativo da preparare perché fatto solo di farina e acqua (all’inizio senza sale perché raro e costoso), a cui solo in seguito, con la diffusione presso i più ricchi, si aggiungeranno le uova. La pasta fresca si preparava in casa e la si consumava nello stesso giorno, vista la mancanza di conoscenze per la sua conservazione, piuttosto difficile invero vista la presenza di acqua nell’impasto e il conseguente e veloce sviluppo di muffe sulla superficie e batteri all’interno.
Solo successivamente, probabilmente grazie agli arabi nomadi, la pasta fu sottoposta ad essiccazione, in modo da rendere più agevole la conservazione durante lo spostamento delle tribù nel deserto. Secondo altri studiosi, invece, la pasta secca essa fu ideata dai siciliani sotto l’influenza della cultura araba nel sec. XII. Essa veniva denominata col termine itrija o tria (di derivazione araba) che indicava la pasta alimentare di forma allungata. Dalla Sicilia la pasta fresca si diffuse anche la Nord grazie ai mercanti genovesi e la diffusione fu così connotata dall’origine ligure dei mercanti che molte ricette del XII – XIII sec. sono accompagnate dall’aggettivo “genovese” (famosa è la pasta alla genovese, fatta con una salsa a base di cipolla, appassita senza acqua in tegame) e carne tritata o a pezzi, il tutto per condire in genere degli spaghetti).
La Toscana si segnala per la produzione di vermicelli, mentre in Puglia l’industria della pasta secca diventa fiorente già nel 1400: la pasta secca attecchisce poco nell’Italia del centro - nord (Emilia, Lombardia) dove si preferisce quella fresca, normalmente ripiena (tortelli e simili, lasagne arricchite come ancora oggi e anche di più). La pasta viene accolta bene anche in Provenza ed Inghilterra; si diffondono sia paste lunghe (vermicelli) che corte (maccheroni), paste sia ripiene (tortellini, ravioli) che farcite (lasagne).
Per diverso tempo la definizione di pasta è incerta (alcuni chiamano pasta le polpette di carne o verdura), così come la destinazione e l’uso sociale. Non si comprende bene se definire la pasta cibo per popolo o per ricchi, perché da una parte la conservabilità fa propendere per l’uso da parte di gente che per lavoro si sposta e ha bisogno di cibo che si conserva (es. marinai), dall’altro il fatto che di pasta e formaggio si favoleggi nel paese di Cuccagna o di Bengodi potrebbe far pensare ad un cibo da ricchi sognato dai poveri.
A pensarci bene, però, l’uso della pasta secca fu appannaggio popolare proprio in virtù della sua conservabilità: infatti, i poveri hanno sempre fame e conservano tutto ciò che in un dato momento è abbondante, in modo da ritrovarselo nelle stagioni rigide o in tempo di magra per via di eventi militari o contingenti; si pensi a quanti ortaggi venivano conservati sotto salamoia o aceto o sugna (non olio perché da vendere ai ricchi, salvo quello scadente), quante carni venivano poste sotto sale o affumicate o speziate e pepate, quanta frutta e pomodori conservati disidratandoli al sole, sempre pensando all’inverno in modo particolare, quando la campagna non produce nulla.
Di conseguenza è facile intuire che la pasta fresca fu inizialmente cibo per ricchi e, quindi, di lusso perché caratteristico di mense sulle quali i prodotti freschi arrivavano ogni giorno e di case in cui non ci si preoccupava del domani conservando i cibi, perché essendo ricchi si era certi della successiva disponibilità di prodotti freschi (pane, carne, pasta). Se vogliamo anche i poveri avevano la loro pasta fresca, con la differenza però che essa era fatta con farina di cereali minori (segale, orzo, avena, panico, miglio, spelta, ecc), i quali senza dubbio, pur nutrienti, fornivano un prodotto meno saporito, meno goloso, meno appetibile di quello derivato dal grano usato dai ricchi. La pasta fresca dei ricchi restava un sogno per i poveri: solo nei decenni successivi, la pasta sia fresca che secca diventerà appannaggio di tutti i ceti sociali, grazie ai progressi tecnologici non solo nel campo agricolo (aumento delle superfici coltivate a frumento e maggiore disponibilità di semente di questo) ma anche in quello della produzione della pasta fresca e secca (introduzione di macchinari con risparmio di manodopera e velocizzazione delle fasi produttive), con costi decisamente inferiori al passato, quindi con prodotto finale accessibile praticamente a tutti.
Bisogna però dire che l’uso della pasta, anche nel Sud più “pastaiolo”, per molto tempo rimase circoscritto a brevi periodi dell’anno, a particolari ricorrenze festive o a periodi in cui in assenza di carestie (dovute a guerre o a eventi naturali) si registrava un aumento della produzione di farina di frumento. Nonostante questo uso ridotto della pasta, fresca o secca che fosse, i siciliani nel 1500 ricevettero loro malgrado (perché non vero) l’appellativo di mangiamaccheroni: in realtà la popolazione (sia siciliana che del sud in genere) di pasta ne mangiava poca perché in quel tempo era molto costosa e la farina doveva comunque essere destinata al pane, alimento principe. Si pensi che a Napoli (dove l’aspirazione alla pasta è stata sempre più elevata che altrove, per motivi di povertà molto più diffusa) si giunse a proibire la fabbricazione di pasta, fresca o secca che fosse, durante periodi in cui la farina scarseggiava per carestia o guerre in corso (il grano lo prendevano gli eserciti), arrivando a imporre veri e propri divieti o in alternativa elevatissime tasse sulla pasta prodotta: la farina doveva servire principalmente per produrre il pane!
Nel Seicento si verifica una svolta storica perché la pasta diventa importante nella dieta popolare: fu però in realtà una scelta politica dell’allora governo spagnolo della città, il quale non potendo garantire rifornimenti di carne per l’ormai affollatissima Napoli (ricordiamo capitale di quel regno e centro culturale e artistico di fama sia nazionale che europea), incentivò sia la coltivazione del frumento che la produzione della pasta, specialmente fresca. Questo anche perché nel frattempo l’introduzione della gramola (per l’omogeneità dell’impasto), del torchio meccanico (per la trafilatura della pasta) e l’essiccatoio artificiale (prima si essiccava all’aria aperta per cui in molte zone la pasta secca non si poteva produrre per il clima umido) resero meno costoso produrre farina e pasta in grande quantità: scoppiò allora l’interesse generale per la pasta e l’appellativo di mangiamaccheroni nel 1700 si spostò dai siciliani ai napoletani.
Le popolazioni del napoletano, e del sud in generale, abbandonarono pian piano i cavoli e la carne (di cui si cibavano largamente) e trovarono nella pasta e nel formaggio con cui la condivano una validissima alternativa al mais e alla patata, per cui la loro dieta, pur monotona, era più equilibrata di quella delle popolazioni del centro e del nord, visto che la pasta di grano duro (frumento coltivato principalmente al sud) apportava il glutine (ottima proteina) e un buon volume alimentare nello stomaco, capace di saziare. In poche parole, un abbondante piatto di pasta rappresentava per tanti il pasto sia di mezzogiorno che serale. Per la gente del sud non si verificarono perciò inconvenienti e non si parlò mai di vera e propria denutrizione. La semola di grano duro rispetto alla farina di frumento tenero (grano tenero) era più conservabile e da qui il successo della pasta nel sud. Da Napoli parte quindi la rivoluzione della pasta e lo stereotipo dell’italiano mangiaspaghetti e mangiamaccheroni si afferma definitivamente, anche se bisogna dire che ancora alla fine del ‘800 la pasta era più consumata dalle famiglie meno povere, anche a sud.
Ma ormai il consumo della pasta era avviato ad una larghissima diffusione non solo nelle famiglie ma anche come cibo di strada, visto che per le masse non vi era l’uso di sedersi a tavola in casa ma di mangiare per strada, fermandosi ad uno dei tanti banchetti nati per cucinare la pasta è venderla subito ai passanti, dopo averla condita. La pasta si mangiava con le mani ed era condita al massimo con del formaggio; solo verso il 1830 comparirà la salsa di pomodoro, altro prodotto americano che rivoluzionerà la gastronomia italiana ed europea.
Note bibliografiche
- M. Montanari, Il cibo come cultura, Editori Laterza
- Montanari-Capetti, La cucina italiana, Editori Laterza
- M. Montanari, La fame e l’abbondanza, Editori Laterza
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