Un padre e tre figlie: due generazioni messe a confronto, ma con la buona cucina orientale in background
E' nato prima quello "basso" o quello "alto"? Scopriamo origini, ingredienti e tradizioni che si celano nel panificato dolce più buono della Liguria
In Italia, come in tanti altri Paesi, esistono diversi tipi di pani dolci destinati a rallegrare l’aria di festa del Santo Natale o della Pasqua e altre festività, e quello genovese ha conservato il nome più semplice quanto efficace di pandolce.
Questo prodotto è tanto speciale per i genovesi da aver ottenuto il riconoscimento PAT (Prodotto Agroalimentare tradizionale) dalla Regione Liguria e dal MIPAAF. Apprezzato anche all’estero, ne esiste anche una versione tutta sudamericana, il pandulce (la cui sussistenza è certamente da attribuire ai tanti genovesi e liguri emigrati nei secoli in Argentina e altri paesi sudamericani), nonché una inglese (Genoa cake) che prende spunto dai suoi ingredienti, e ancora il paska dell’Est Europeo (pane dolce pasquale tipico dell’Ucraina e altri paesi di religione cristiana ortodossa) con la tipica forma a treccia.
A Genova la consuetudine di preparare il pandolce sembra risalire ad Andrea Doria (Oneglia 1466-Genova 1560, uomo politico di famiglia nobile e ricca, nonché ammiraglio della Repubblica Marinara di Genova), che nel 1500 promosse una gara tra pasticcieri per preparare un dolce che rappresentasse bene il benessere di cui godevano i genovesi, i quali avevano attività commerciali e artigianali molto redditizie, mentre pochi erano i contadini (vista la conformazione del territorio); doveva essere non solo un dolce molto buono e ricco di ingredienti costosi simbolo di ricchezza, ma anche nutriente e di lunga conservazione in modo da poter soddisfare le esigenze dei naviganti durante i lunghi viaggi in mare (Genova era una Repubblica Marinara e la sua economia si basava essenzialmente sul commercio via mare).
Il pandolce si preparava per Natale, per il primo giorno dell’anno e per l’Epifania, e in una traccia scritta risalente al 1644, si racconta dell’usanza dei contadini genovesi di preparare un pandolce impastando farina con lievito (certamente di tipo madre, vista l’epoca), acqua profumata con fiori d’arancio, uva secca (di vari tipi tra cui zibibbo e passola) e zucca candita, il tutto addolcito ulteriormente con miele, vivacizzato con pepe nero in grani. Poesie di autori genovesi (inizio 1800) decantano il pandolce, in alcune chiamato strofoggetto, cioè piccolo pasticcio o pasticcetto.
Il pandolce secondo alcuni studiosi era noto già dalla seconda metà del XVIII secolo (al 1780 risale la ricetta più datata del pandolce genovese), anche se secondo altri era già presente in Corsica (dominata dalla Repubblica di Genova dal 1284 al 1768) nel 1671 nei banchetti ufficiali dei governatori genovesi dell’isola, per i quali però i documenti citano marzapane reale e non il pandolce, per cui si deve dedurre che non si trattava del nostro dolce ma dell’impasto di zucchero e mandorle tritate.
Dizionari gastronomici genovesi dell’800 citano il pandolce con diversi nomi: pan döçe, pane dolce, pan di Natale, pan dùse, pan du bambin, tutti caratterizzati dalla forma circolare, notevole volume e dai medesimi ingredienti: farina, burro, acqua di fiori d’arancio, zucchero, pinoli, uvetta, sempre di medie o grandi dimensioni. La ricetta definitiva del pandolce genovese viene riportata nel 1863 da G.B. Ratto in un suo libro sulla vera cucina genovese, ricetta che prevede oltre agli ingredienti già citati, anche semi di finocchio dolce, uva secca malaga (nota da tempi remoti, deriva dall'uva moscatello nelle province di Malaga, Alicante, Valenza e Granata), zucca candita e lievito di birra, elemento insolito per l’epoca dato che per la preparazione tradizionale si ricorreva sempre a lievito madre. Ancora altri autori accennano anche all’uso di marsala, vino bianco, olio di qualità, uva passola bianca di Smirne (Turchia), pistacchi, semi di anice.
Probabilmente l’uso del lievito di birra certamente serviva per velocizzare e, in un certo senso, modernizzare il pandolce. Si tenga presente, infatti, che in quegli anni iniziava l’avvento dell’industrializzazione di molte produzioni alimentari, per renderle più economiche e perciò più facili da vendere e alla portata di tutti i ceti sociali. La sua introduzione ha consentito di ottenere prodotti che tra loro si differenziano per sfumature rispetto all’originale pandolce, caratterizzando in tal modo il prodotto delle diverse massaie e dei vari pasticcieri. Naturalmente il pandolce casalingo, tradizionale, lungo da preparare con ben 12 e più ore di lievitazione, ha una squisitezza che il prodotto più veloce ed economico non ha, pur lievitando comunque per molte ore (seppur minori).
Come da tradizione, il pandolce genovese può essere di tipo alto e di tipo basso: per la preparazione del primo si utilizza lievito madre o crescente, mentre per il secondo lievito di birra fresco o secco; prima che quest’ultimo fosse commercializzato (primi anni del ‘900) alcuni usavano il lievito chimico, fatto di bicarbonato di sodio e cremore di tartaro (bitartrato di potassio). Con questo lievito istantaneo si preparava (e si prepara) il cosiddetto pandolce svelto (per la rapidità della preparazione), dato che appena pronto l’impasto viene posto a cuocere per circa un’ora. Va rilevato che mentre il tipo alto rappresenta la tradizione per via dell’uso di crescente, quello basso rappresenta (svelto o meno che sia) la velocizzazione, una seconda scelta per il consumatore, perché pur essendo abbastanza valido è sempre di qualità inferiore al tradizionale alto. Infatti mentre il tipo alto è un pane soffice e dolce, quello basso è simile a pasta frolla arricchita dei condimenti citati.
Varianti non sono soltante quelle derivate da scelte di chi prepara il dolce in base ai suoi gusti, ma anche quelle derivate dalle condizioni economiche che caratterizzavano un tempo, più che oggi, gli usi alimentari dei ceti sociali, per cui chi non poteva permettersi di preparare per Natale un pandolce come tradizione vuole, sostituiva alcuni elementi economizzando sulla spesa: allora comparivano le noci al posto dei pinoli, il mosto cotto (di uva o di fichi) e il miele al posto dello zucchero, le prugne o i fichi secchi invece dell’uvetta secca di pregio (come quella di zibibbo, vitigno siciliano).
Simile al pandolce è la figassa de Natale: si tratta di una soluzione tipica del mondo contadino quando arrivava Natale, nel quale si preparava una focaccia alta 5-6 cm (quindi molto simile a un pane), che poteva essere condita con sale (e nel cui impasto si metteva anche olio o strutto) detta figassa, o con zucchero (nell’impasto si aggiungeva crema di latte o burro) chiamandola figassa duse, arricchita solo con uvetta (mai più poveri ci mettevano le prugne prodotte nel proprio fondo e fatte seccare per concentrare gli zuccheri, come avviene appunto per l’uvetta secca). La cottura della figassa avveniva tra due testi bollenti o nel proprio forno a legna o portandola dal fornaio (come si faceva per i biscotti, il pane e le focacce classiche).
Gli esperti della tradizione e della pasticceria (sia domestica che artigianale) sono tutti concordi nell’affermare che la preparazione del pandolce tradizionale, per il quale ricordiamo si usa il lievito madre, cioè quello alto, trova la sua massima complicazione nell’umidità atmosferica e temperatura dell’aria, quindi al tempo atmosferico del giorno in cui si sta preparando il pandolce; sono questi elementi che influiscono sull’attività dei lieviti e batteri lattici presenti nel crescente, i quali operano la fermentazione dell’amido della farina e degli altri zuccheri, producendo anidride carbonica ed altri gas che fanno aumentare di volume la pasta, oltre a formare sostanze volatili per il profumo e altre ancora per il sapore.
Preparare un pandolce tradizionale è quindi una vera arte, che richiede non solo pazienza ma tanta esperienza (derivata dall’aver tante volte preparato il dolce ingegnandosi a riflettere anche sulle caratteristiche atmosferiche del momento, per farne tesoro per la successiva preparazione). Il vino giusto quando si gusta il pandolce è lo Sciacchetrà, tipico prodotto ligure di grande qualità, ottenuto dai vigneti delle Cinque Terre. In sua mancanza ci orienteremo sempre verso un bianco, dolce, frizzante, poco alcolico, profumato.
Concludiamo citando la tradizione genovese per il servizio del pandolce: lo porta in tavola il più giovane della casa e lo consegna al più anziano che lo taglia e lo distribuisce; nel mezzo del dolce va posta una foglia d’alloro per augurare benessere e fortuna nell’anno che inizia, e per questo un fetta sarà offerta al primo povero che bussa alla porta di casa e un’altra per la festa di San Biagio il 3 febbraio (il santo protegge dai mali della gola).
Note bibliografiche
S. Rossi, Pandolce Genovese, Ed. SAGEPI
C. Cesetti, C'è una volta. Ricette e storie della tradizione popolare, Ed. Stampa Alternativa
S. Calzari, Pasticceria. Tecnica, arte e passione, Ed. Del Faro
M. Depuis, Il grande manuale del pasticciere, Ed. L’Ippocampo
0 Commenti