Il rabarbaro

Appartiene alla stessa famiglia del grano saraceno, e se ne consumano i rossi gambi: ecco che sapore ha e come utilizzarlo in cucina

Il rabarbaro

Rabarbaro è il nome corrente delle specie vegetali Rheum, Rumex e Thalictrum, nome che deriverebbe dalla combinazione delle parole greche “ra” che sta per “pianta” e di “barbaron” che sta per essere coltivata dai barbari. 

Quella che a noi interessa, in quanto identifica il vero rabarbaro, è la specie Rheum officinalis, originaria della Cina (Nord e Ovest) e del Tibet. Si tratta di una pianta erbacea (qiundi non legnosa), perenne (dura in vita parecchi anni perché non si esaurisce con la produzione di semi) della famiglia Poligonacee (nome dovuto probabilmente ai frutti angolosi) come il grano saraceno (Fagopyrum esculentum, che non è un cereale) e i romici (piante del genere Rumex), con fusto corto, cespitoso (forma un cespo da cui si dipartono foglie e scapo fiorale), foglie alterne quasi basali, grandi e lunghe fino a 70 cm, verde lucenti o rossastre, profondamente incise, tenere, gibbose. 

Il rabarbaro ricorda nell’aspetto delle sue coste il sedano, nonché la bietola da coste rossa, ormai molto in voga con quella gialla e quella arancione, specialmente nell’Europa centrale. Coltivata in Cina da millenni a fini medicinali e non alimentari, la pianta di rabarbaro deve la sua introduzione in Europa ai viaggi di Marco Polo, diffondendosi particolarmente in Inghilterra e Francia nel XVII secolo, oltre che in Germania.

I fiori, numerosissimi, sono portati da steli fiorali alti anche fino a 3 metri, sono piccoli, incospicui (poco visibili), biancastri, riuniti in spighe che formano una pannocchia terminale. La pannocchia cambia colore a seconda delle specie, presentandosi talvolta rossa, talaltra bianca, oppure bianco verdastra o bianco giallastra. L’organo vegetale che rende perenne questa pianta erbacea è il voluminoso rizoma (fusto sotterraneo strisciante, ricco di sostanze di riserva), da raccogliere solo dal quarto anno di età della pianta per l’uso erboristico/profumeria/liquoreria.

R. officinalis è spesso usata (insieme a R. palmatum, o rabarbaro cinese o rosso o rabarbaro della Mongolia) come pianta ornamentale da foglie, ma questo è un uso secondario. In Oriente, e in altre aree nel mondo, le due specie sono coltivate per i rizomi che, essiccati, forniscono la cosiddetta “radice di rabarbaro cinese o droga”, usata in medicina come purgante, lassativo, tonico, eupeptico (favorisce l'appetito e le funzioni digestive), colagogo (favorisce lo svuotamento della bile nel fegato). Quello cinese è il rabarbaro più pregiato, specialmente se proveniente dalle aree costiere del Pacifico, ma anche altri paesi orientali del sud est asiatico lo producono. Un tempo i maggiori produttori mondiali di rabarbaro erano la Cina e la Russia, mentre oggi sono USA e Regno Unito, in cui si coltivano circa 60 varietà di questa pianta, tra cui le più diffuse sono: la Canada Red, la Crimson Cherry, la German Wine, la Colorado e la Victoria. 

I maggiori consumatori di rabarbaro sia per il rizoma che per coste e radici sono i due Paesi maggiori produttori e la Cina. Nel Mediterraneo le coltivazioni di rabarbaro si trovano in Sicilia e a Malta. Dal punto di vista agricolo il rabarbaro si propaga agamicamente (cioè non per seme) usando i rigetti basali delle piante madri, collocando in media 2.500 piante per ettaro; necessita di zappature nel primo anno di vita e sarchiature al secondo anno. Le infiorescenze devono essere tagliate appena si formano, mentre al 3° - 4° anno dall’impianto si scavano i rizomi, da cui ottenere prodotti di erboristeria, profumeria e liquoreria (usando il rizoma polverizzato si produce un liquore amaro usato come tonico e digestivo).

In Europa sono coltivate anche le specie R. rhabarbarum (sin. R. undulatum) ed R. rhaponticum (rabarbaro europeo, distinto secondo la provenienza in austriaco, francese e inglese), i cui rizomi sono usati come succedanei del rabarbaro cinese, però di questo meno attivi e per usati più che altro in veterinaria. Di rabarbaro esiste anche quello “indiano” botanicamente identificato con le specie R. emodi, R. moorcroftianum, R. spiriforme, R. australe, R. nobile.

Il rabarbaro (intendiamo sempre il rizoma di tale pianta) contiene antrachinoni (da cui deriva il principio attivo rabarberone, oltre a reina ed emodina), una particolare classe di glicosidi con proprietà lassative. Un glicoside è un composto in cui una molecola di carboidrato, detta glicone, si unisce ad altra sostanza non zuccherina detta aglicone; se il carboidrato è il glucosio si parla di glucoside.

Nell’intestino crasso (detto anche grande intestino, è la seconda parte del nostro apparato intestinale dopo l’intestino tenue), grazie alla microflora batterica presente, i glicosidi rilasciano il proprio aglicone che è chimicamente un antrone, con proprietà lassativa. Il rabarbaro però non contiene solo le sostanze descritte, ma anche tannini (astringenti), polifenoli, acido crisofanico (o metilantrachinone, conosciuto anche con i nomi di crisofanolo o rumicina, è un chinone) e acido catartico (C14O4H2-COOH)

Il rizoma viene lavorato frantumandolo in pezzetti di 3 – 8 cm di lunghezza, poi essiccato su graticci (quello migliore) o in stufe. Del rabarbaro non si mangiano le foglie (verdi) perché tossiche a causa dell’elevato contenuto di ossalato di calcio.. Per uso alimentare sono usati gli steli o gambi delle foglie (specialmente in Regno Unito e Olanda, dove si consumano come gli spinaci), i quali si raccolgono dalle piante di almeno 2 anni, cominciando a tagliare dal mese di aprile fini all’inizio dell’autunno, utilizzando però in cucina solo quelli più grandi e basali. All’arrivo del primo freddo si tagliano tutti gli steli.

Gli steli o gambi avendo un gusto acidulo, appena dolciastro (potremmo dire quasi agrodolce), vengono cotti come una verdura, aggiungendo però un po’ di zucchero. Gli steli devono essere puliti eliminando i filamenti delle costole, come si fa per il sedano e il cardo. Il rabarbaro per il suo sapore amarognolo è molto usato sia per la preparazione di dolci (come la crostata di rabarbaro e frutta fresca), che confetture (magari unito a frutta come la fragola o la mela, oltre a tanti dolci tipici inglesi), che torte salate (con formaggi tipo taleggio). Gli steli possono essere cotti nel forno, in padella, bolliti, al vapore, per centrifugati misti con altra frutta di stagione. 

Grazie al suo gusto agrodolce, il rabarbaro cotto può accompagnare carne di maiale, pesce un po’ grasso come il salmone, baccalà al forno; nella lista non mancano i risotti impreziositi dal rabarbaro, ravioli in cui il rabarbaro cotto si unisce a ricotta, insalate miste di stagione con formaggi freschi. Di recente la UE ha rivisto la normativa per l’uso dei derivati del rabarbaro, dell’aloe e di altre piante officinali, al fine di proteggere i consumatori dagli effetti cancerogeni degli estratti. 

Il nome rabarbaro, come anticipato in apertura, riguarda anche piante del genere Thalictrum o talitro, della famiglia Ranuncolacee, con specie in genere ornamentali: T. angustifolium (detta erba cipressa), T. aquilegfolium (detta talitro), T. flavum (detta anche rabarbaro falso, ruta selvatica, pigamo, con radice che la medicina popolare usava come diuretico, aperitivo e febbrifugo),  T. minus e molte altre.  

Anche piante del genere Rumex della famiglia delle Poligonaceee, vengono indicate col nome rabarbaro, come R. acetosa (oltre a R. acetosella), o erba brusca o acetosa di pecora, infestante erbacea perenne, con grossa radice dalla quale, in primavera, si sviluppa un fusto eretto, semplice o poco ramificato di colore rossastro che può raggiungere l'altezza di un metro. Ha un sapore acidulo e si usa in aggiunta alle insalate fresche, agli spinaci e le verdure cotte in genere, mentre le foglie possono essere consumate fresche in piccole quantità. Tra i Rumex possiamo ricordare anche R. patientia (o lingua di vacca, o rabarbaro dei monaci), R. scutatus, R. montanus, R. crispus (o lapazio, lingua di cane, romice crespo) e R. acquaticus (o erba britannica o tabacco di palude), usate nella medicina popolare come ricostituenti (utili per la ripresa di soggetti debilitati) e astringenti (contro la diarrea).

Note bibliografiche

  • Dizionario di agricoltura, Ed. UTET
  • Tassinari, Manuale dell’agronomo, Ed. REDA
  • Forte, Nuovo dizionario tecnico di agricoltura, Edagricole
  • A. Sorzio, Cucina folk – I piatti della tradizione popolare, Fratelli Fabbri Editori

Photo via Pexels

Scritto da Luciano Albano

Laureato con lode in Scienze Agrarie presso l’Università degli Studi di Bari nel 1978, ha svolto servizio come dirigente del servizio miglioramenti fondiari della Regione Puglia presso l’Ispettorato Agrario della città di Taranto. Appassionato di oli e vini, ha conseguito il diploma di sommelier A.I.S. e quello di assaggiatore ufficiale di olio per la sua regione

Già specializzato in Irrigazione e Drenaggio dei terreni agricoli presso il C.I.H.E.A.M. di Bari (Centre International de Hautes Etudes Agronomiques Mediterraneennes), nonché iscritto all'Ordine dei Dottori Agronomi della Provincia di Taranto e nell'Albo dei C.T.U. del Tribunale Civile di Taranto

, da sempre ama approfondire il food e il beverage per metterne in rilievo ogni sfaccettatura.

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