Pitagora “contro” le fave

Il celebre filosofo e matematico greco nutriva una particolare avversione (alimentare e non solo) per le fave: ecco le ipotesi sui perché

Pitagora “contro” le fave

Sono trentanove le regole citate nel bìos pythagorikòs (lo “stile di vita pitagorico”): al 37° posto c’è l’astensione dal cibarsi di fave, uno dei tabù più curiosi e stravaganti dettato dal filosofo e matematico Pitagora ai suoi discepoli. La comunità pitagorica aveva diverse regole piuttosto bizzarre da rispettare riguardo l’alimentazione, ma il rapporto dei pitagorici con le fave era assai rigido e non permetteva alcuna deroga nonostante il maestro fosse un vegetariano convinto. Per tutti i suoi adepti era infatti proibito mangiare le fave e addirittura toccarle, ed essi dovevano evitare ogni tipo di contatto con il legume nonostante all’epoca la pianta fosse largamente usata in tutta l'area mediterranea. 

A dimostrazione di quanto questo precetto fosse rigido e importante, basti pensare a ciò che Diogene scrive circa la morte del filosofo: racconta che Pitagora dovette fuggire all’improvviso da Crotone (dove visse e operò), probabilmente a seguito di una rivolta contro di lui e il suo ordine, ma preferì essere ucciso piuttosto che scappare trovandosi costretto ad attraversare un campo di fave. 

In considerazione del carattere segreto della scuola e della tendenza dei suoi discepoli a narrare cose e fatti ricchi di contraddizioni, e poiché mai apertamente dichiarato da Pitagora, filosofi e storici tentano da sempre di trovare spiegazioni a questa particolare limitazione alimentare. Tutto parte dalle convinzioni di Pitagora e della sua scuola che credeva nella metempsicosi, che praticava la ricerca della conoscenza e lo studio della matematica; predicava la purezza, il vegetarianesimo e l’immortalità dell’anima. Pitagora imponeva severe regole di vita ai suoi discepoli, e all’origine del divieto di mangiare e toccare le fave ci sarebbero ragioni sia pratiche che simboliche.

Concretamente poteva trattarsi di una precauzione contro il favismo: questa teoria, sostenuta da Gerald Hart, trova fondamento nel fatto che il legume fosse all’epoca molto diffuso e consumato e, di conseguenza, il divieto di mangiarne poteva essere una precauzione sanitaria a tutela della salute di molti. Pitagora, infatti, conosceva bene le caratteristiche dei vari alimenti ed essendo vegetariano era un esperto di piante e preparati a base di esse. È presumibile che sapesse già ai suoi tempi che alcuni individui, mangiando fave crude o cotte, o semplicemente inalandone il polline, potevano manifestare sintomi da intossicazione fino alla morte. Il tabù altro non era che un modo pratico di mettere in guardia e sensibilizzare circa la pericolosità dell’alimento (o secondo alcuni, potrebbe essere stato proprio Pitagora a soffrire in prima persona di favismo).

Simbolicamente invece ai suoi tempi la fava era considerata un legume impuro. La fava ha infatti uno stelo privo di nodi e questo la faceva ritenere in contatto stretto con il mondo sotterraneo dell’Ade, tanto che le anime dei morti sarebbero risalite sulla terra proprio attraverso la fioritura delle fave. La teoria proposta da Claude Lévi-Strauss (studioso di usi e costumi delle popolazioni classiche) spiegava proprio il tabù delle fave legandolo alla credenza che il legume avesse un rapporto stretto e simbolico con la morte (la decomposizione e l’impurità). 

Poiché i pitagorici non dovevano in alcun modo entrare in contatto con la morte e tutto ciò che la riguardava, era ovvio che anche i legumi in oggetto fossero assolutamente da evitare. Anche dopo le sepolture, per esempio, non si poteva passare al di sopra di una tomba perché al di sotto vi era un cadavere; il passaggio e la conseguente contaminazione richiedeva articolati processi di purificazione attraverso bagni rituali che annullavano il contatto con l’impuro e la morte. L’anima, secondo i pitagorici, era immortale e si rincarnava in corpi sempre diversi; se però il corpo diventava impuro (perché entrato in contatto con un elemento impuro) anche l’anima lo diventava e sarebbe stata costretta a reincarnarsi in esseri inferiori. Conseguentemente, ciò spingeva i seguaci di Pitagora ad evitare ogni contatto con ciò che potesse essere impuro, comprese appunto le fave. 

C’è infine un terzo aspetto da considerare, quello che lega il tabù delle fave al mondo della sessualità. Porfirio in “Vita di Pitagora” scriveva che il filosofo “prescriveva di astenersi dalle fave non meno che dalla carne umana”. Secondo questa spiegazione le fave rappresentano lo stato non ancora compiuto dell’uomo (il baccello del legume rimandava agli organi sessuali maschili e femminili), cioè fave e uomini sarebbero nati dallo stesso seme (“me ne astengo, perché son sacre, perché hanno una natura mirabile”) e, a dimostrazione di ciò, Pitagora portava l’esempio della fava masticata e lasciata al sole (“se si mastica la fava e dopo averla trita coi denti si espone per poco tempo all’ardore dei raggi del sole e poi la si lascia e dopo breve intervallo di tempo si torna a vederla, si sentirà da essa odore di seme umano”). 

Per i Pitagorici, inoltre, i fiori della pianta delle fave ricordavano la “natura di donna” e, di conseguenza, per pudore e per preservarne la purezza, dovevano starvi alla larga. In sostanza, secondo questa ipotesi, attraverso le proibizioni Pitagora proponeva agli uomini un nuovo codice morale articolato in regole che potessero stabilire cosa fosse puro e impuro, lecito e illecito, permesso e proibito, sacro e profano, limitato e illimitato. Non si può però non prendere in considerazione una ulteriore ipotesi, più semplice, legata quasi in modo banale al fatto che le fave non fossero poi così buone da mangiare. Rispetto ad altri prodotti dell’agricoltura, le fave nelle varietà ancestrali erano un alimento grezzo, destinato a sfamare i ceti più bassi e spesso finivano con l’essere pasto per gli animali o fertilizzante per il terreno. Così divennero il cibo dei poveri, considerato dagli aristocratici emblema della grossolanità. 

Malgrado il divieto imposto da Pitagora che, come altre prescrizioni alimentari e non, aveva lo scopo di differenziare i suoi discepoli dal resto della popolazione e di affermarne così l’identità, oggi possiamo apprezzare a tavola tutto il buono delle fave e le decine di ricette che la tradizione ci ha consegnato a preparare con esse, come la deliziosa pasta fave e cicoria del nostro direttore editoriale Fabio Campoli!

 

Scritto da Viviana Di Salvo

Laureata in lettere con indirizzo storico geografico, affina la sua passione per il territorio e la cultura attraverso l’esperienza come autrice televisiva (Rai e TV2000). Successivamente “prestata” anche al settore della tutela e promozione della salute (collabora con il Ministero della Salute dal 2013), coltiva la passione per la cultura gastronomica, le tradizioni e il buon cibo con un occhio sempre attento al territorio e alle sue specificità antropologiche e ambientali.

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