Un contenuto tratto dal celebre libro di Luigi Carnacina pubblicato nel 1966 e tutto dedicato alle uova
Quante persone sono realmente consapevoli di quanta acqua dolce è necessaria per produrre gli alimenti serviti ogni giorno in tavola?
Se la nostra salute passa anche per una buona alimentazione, quella del nostro pianeta, che ci da tanti deliziosi frutti, è sempre di più tutta nelle nostre mani. Infatti, anche noi stessi, con le nostre scelte e comportamenti anche a tavola, influiamo sulla quantità di anidride carbonica prodotta giornalmente, che porta ciascuno a possedere una propria “impronta di carbonio”. Connesso a tale argomento, c’è anche il consumo di acqua dolce: avete mai pensato a quanta se ne consuma non solo a livello domestico, ma anche per produrre gli alimenti che consumiamo nella vita quotidiana?
L’acqua dolce è una risorsa limitata sulla Terra: la sua carenza è uno tra i problemi globali più gravi e urgenti a cui trovare (con grande e comprensibile difficoltà) una possibile soluzione. Per questo è importante che ciascuno diventi più consapevole della propria impronta idrica, ovvero di quel parametro che aiuta a misurare la quantità di acqua che consumiamo per usufruire dei beni e dei servizi che preferiamo, per portare a riflettere su un possibile cambio delle abitudini alimentari ai fini di fare di più nel proprio impegno per preservare le risorse e la natura intera.
Se il grande pubblico ha già iniziato a sviluppare una certa sensibilità su questo argomento, ad esempio per quanto concerne i grandi volumi di acqua necessari per la produzione di molte tipologie di capi d’abbigliamento, non si può dire ancora lo stesso per quanto riguarda la stessa problematica relativa alle produzioni alimentari. E l’aspetto alimentare è ancor più incisivo: si stima che quasi l’80% della propria impronta idrica personale sia legata ai cibi di cui si sceglie di nutrirsi. Preservare il consumo di acqua in un modo nuovo è “più globale” è dunque possibile, e sarebbe il miglior atteggiamento auspicabile in aggiunta al consumo d’acqua inteso in senso letterale, applicato già da tanti consumatori in casa stando attenti ai piccoli gesti quotidiani che possono fare la differenza (es. tenere il rubinetto chiuso mentre ci laviamo i denti, limitare i bagni in vasca e i tempi della doccia ecc.).
E allora, siete curiosi di conoscere l’impronta idrica di un panino da 150 g farcito con insalata, pomodori, hamburger, cipolla e cetriolini sott’aceto? Sono ben 2400 i litri d’acqua stimati per la produzione “dal campo alla tavola” di tutti gli ingredienti che lo compongono. Mentre una tazzina di caffè espresso ha un’impronta idrica pari a circa 130 litri, che a loro volta rappresentano 4 volte l’impronta idrica di una tazza di tè. La scelta di consumare carne porta ad alzare particolarmente la propria impronta idrica, perché come si sa la sua filiera produttiva porta ad una grande produzione di anidride carbonica: un chilo di carne di pollo ha un’impronta idrica stimata intorno ai 4.300 litri, quella di maiale sui 6.000 litri, e quella bovina può arrivare anche a 15.000 litri. Mangiare un pomodoro corrisponde invece ad un’impronta idrica di appena 13 litri, bere un bicchiere di vino 120 litri, un bicchiere di latte circa 250 litri, un chilo di mele 822 litri.
Il concetto di impronta idrica fu formulato nel 2002 dal prof. Arjen Y. Hoekstra, oggi direttore scientifico del Water Footprint Network.
Scritto da Redazione ProDiGus
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