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È la bevanda dolce e spiritosa più conosciuta della Toscana: ma come si produce il vin santo e come gustarlo al meglio?
Quando si parla di Vin Santo il pensiero corre subito alla Toscana, alla sua degustazione con i cantucci, i ricciarelli ed altre delizie, ed è di certo la versione prodotta in questa regione ad essere la più rinomata sia in Italia che all’estero. Ma attenzione: è bene sapere che questo nettare prelibato si produce anche in tante regioni italiane, trattandosi di un prodotto tipicamente contadino.
La cultura campagnola, infatti, ha avuto nei secoli molti punti che hanno riunito il pensiero agricolo in un unicum tutto italiano, generazioni di contadini che nei secoli hanno avuto idee simili, pur non conoscendosi tra loro e non scambiandosi tecniche di trasformazione dei prodotti della campagna (tutt’al più erano i viaggiatori che portavano le notizie da un luogo all’altro, raccontando delle prelibatezze assaggiate nei luoghi visitati). Sono nati così vini dolci in tanti luoghi del nostro Paese, derivati dall’appassimento delle uve, o da particolari uve lasciate congelare sulle piante, da mosti concentrati, da aggiunta di mosto concentrato al vino, ecc.
Nessuno di questi vini, però, ha eguagliato la fama mondiale del Vin Santo, prodotto notissimo grazie non solo alla grande qualità e peculiarità, ma anche all’attenta e costante attività promozionale dei toscani, celebri in tutta Italia per la capacità di incentivare al meglio i propri patrimoni enogastronomici. A dimostrazione dell’estrema variabilità delle tecniche di produzione di questo vino, va detto che oggi anche nella stessa Toscana non esiste un unico vin santo, ma “tanti vin santi” a seconda delle zone vitivinicole, mentre sino a qualche decennio fa vi era un unico generico vin santo. Veniva prodotto dai contadini esclusivamente per uso di famiglia; oggi il suo processo produttivo, se pur “standardizzato” anche ai fini dell’ottenimento della denominazione d’origine europea, è ancora molto attento e consiste in fasi delicate, che ne fanno un prodotto di pregio e dal prezzo elevato più che giustificato.
Riguardo la storia del Vin Santo, una leggenda racconta che nel 1348 i frati curavano i malati di peste con il vino della Messa, e questi guarivano, da cui il nome del vino; altra leggenda parla dell’esclamazione “questo è vino di Xantos” (piccola isola greca) pronunciata nel Concilio Ecumenico di Firenze del 1449, dal Patriarca Ortodosso Bessarione dopo aver bevuto il vino pretto, cioè del vino puro, con successiva popolare trasformazione in Santo; per altre menti, i frati erano tanto presi dai loro impegni di Novembre e Dicembre, da dimenticarsi di vendemmiare al tempo giusto, ma raccogliendo l’uva ormai appassita sulle piante, da cui il vino speciale che ne ricavavano dopo le feste, tanto da destinarlo alla Santa Messa; altra leggenda vuole che il nome sia dovuto alla tradizione di bere questo vino in periodi speciali come la Settimana Santa, il Natale e la festa di Ognissanti.
Il vin santo toscano viene prodotto da uve bianche dei vitigni Malvasia e Trebbiano, a volte con aggiunta di Grechetto; si usa anche il rosso Lanaiolo (se siamo in quel di Montepulciano) o Sangiovese (se siamo nella zona del Chianti) quando si vuole ottenere il vin santo detto Occhio Pernice (nome probabilmente usato tra i cacciatori con riferimento al colore degli occhi di questo uccello), dal colore più scuro e sapore più accentuato. Altrove si usano anche uve bianche Canaiolo, San Colombano, Pinot bianco e Chardonnay.
Le uve vengono raccolte ben sane e mature, indi poste ad appassire per diverse settimane (dopo la vendemmia si va da tre settimane a tre mesi, fino a sei mesi a seconda della tipologia di vin santo che si deve ottenere) in luogo asciutto, ventilato, su graticci (detti penzane) o appese alle travi del soffitto. Bisogna controllare molto e rigirare i grappoli e ripulirli dagli acini con muffa, perché non si tratta di muffa nobile come per i vini muffati. Raggiunto il giusto grado di appassimento (con conseguente concentrazione zuccherina), i grappoli vengono diraspati a mano (per piccole produzioni familiari) o con diraspatrici (spesso anche queste azionate a mano nelle piccole produzioni, ma elettriche per produzioni artigianali di rilievo), dopo di che si passa alla pigiatura nelle presse (manuali o elettriche in funzione della massa da trasformare), ottenendo un mosto denso e tanto dolce (si ottengono 160 litri da 500 kg di uva), prima filtrato (anche con colino domestico per le piccole produzioni), poi posto a fermentare (la fermentazione si fermerà spontaneamente quando il vino avrà raggiunto i 15° alcolici) nei caratelli, piccole botti di castagno della capacità di 30 – 60 litri. Qui il mosto resterà per molto tempo, in funzione della tipologia di vin santo che si vuole ottenere (almeno 3 anni, ma si arriva anche a 7-8, ma non si superano i 9).
Queste botti da alcuni vengono lasciate aperte per aggiungere periodicamente del mosto nuovo (perché quello originario si riduce durante la maturazione per semplice evaporazione), mentre altri le sigillano letteralmente coprendo il tappo con cemento, dopo averlo inchiodato alla botte con una fascetta traversale di alluminio (intorno al tappo si mette cera d’api per favorire la vita del tappo e trasferire aromi particolari al vino). I caratelli vengono posti in soffitta, in modo da esporre il vino al caldo e al freddo di questo locale: saranno proprio gli sbalzi termici che determineranno le caratteristiche finali del vin santo (nelle produzioni rilevanti e di grande pregio si parla di un locale specifico detto “vinsantiera”).
Quando si avvia una nuova batteria di caratelli (una nuova produzione) prima del riempimento col mosto che deve diventare vino, si mette prima la cosiddetta madre, cioè quella parte densa che resta nei caratelli svuotati a fine ciclo produttivo: l’operazione consente di avviare la fermentazione e conferire le caratteristiche migliori al successivo vin santo. La produzione di vin santo è molto costosa per le operazioni minuziose e manuali che richiede, ma anche perché alla fine da 500 kg di uva si ottengono (come detto) 160 litri di mosto e soltanto 30 litri di vin santo quando il vino resta nel caratello fino a 9 anni. La svinatura di solito avviene in marzo (con riferimento all’anno di invecchiamento deciso dal produttore); il nuovo vin santo si farà solo dopo aver svinato quello maturo. Quest’ultimo viene posto in damigiane con vetro verde scuro, dove resta per altri sei mesi, subendo altre preziose trasformazioni grazie all’azione della luce filtrata dal vetro.
Il vin santo si imbottiglia e si beve di tradizione per Natale e per Pasqua: nel primo caso si tratta di un vino più secco dell’altro, perché le uve sono meno ricche di zuccheri per il minor tempo di appassimento, mentre nel secondo caso il prodotto è più dolce e vellutato per il maggior appassimento delle uve (almeno tre mesi in più del primo).
Nella DOC Vin Santo del Chianti (riconoscimento 1987, con 7 sottozone) l’immissione al consumo può avvenire solo dopo il 1° Novembre del terzo anno successivo alla vendemmia, e per la tipologia Riserva dopo il 1° Novembre del quarto anno dalla vendemmia. Questo vin santo ha un colore che oscilla dal giallo paglierino dorato all’ambrato; l’odore è etereo (come cera, sapone, smalto,ceralacca, caramella inglese e altri), intenso e caratteristico; il sapore è armonico, vellutato con sentori di noce, nocciola e mandorla; le tipologie sono Secco (1-5 g/l di zucchero), Abboccato (12-20 g/l), Amabile (20-50 g/l), Dolce (50-100 e più g/l di zucchero), con aumento progressivo della morbidezza che come detto in altre occasioni è data da glicerina, alcol e zuccheri residui non svolti presenti nel vino (cioè non fermentati a causa della morte dei lieviti); la gradazione alcolica minima è di 15,5°.
La citata DOC prevede la tipologia Vin Santo del Chianti Occhio di Pernice, per la quale il periodo di maturazione del vino varia da 3 a 8 anni, mentre i caratelli a differenza del vin santo del Chianti DOC restano sigillati e il vino non viene né rabboccato né travasato. Il colore va dal rosa pallido al rosa intenso, a volte topazio; l’odore è complesso, ricco e intenso; il sapore è fine, persistente, vellutato, rotondo. La gradazione alcolica minima è di 18°C. L’Occhio di Pernice di questa DOC può essere Secco, Amabile, Dolce. Esiste anche la DOC Vin Santo del Chianti Classico (riconoscimento del 1995), con aree di produzione differenti dalla precedente DOC, dotata di due tipologie: Vin Santo del Chianti Classico (secco, amabile, riserva secco, riserva amabile), Vin Santo del Chianti Classico Occhio di Pernice (secco e riserva).
Il Vin Santo si serve a 14 – 15°C, in calici piccoli a tulipano panciuto, dove può sviluppare tutto il suo profumo. Il tipo secco nelle diverse tipologie DOC, considerato il poco zucchero presente, può essere usato come vino da pasto (d’altronde non dimentichiamo che in tante aree italiane, moltissimi amano bere ai pasti un vino ottenuto miscelando 1/3 di vino amabile con 2/3 di vino seco). Il tipo abboccato di qualunque DOC del Vin Santo si può bere durante il pasto, abbinandolo magari a formaggi stagionati e/o piccanti; le tipologie più dolci si abbinano bene sia ai formaggi piccanti che e a quelli molto stagionati, oltre che alla classica pasticceria secca come i cantuccini, brigidini, biscottini di Prato, castagnaccio, ricciarelli, panforte, panpepato, madeleine, frutta secca; per tutte le tipologie delle due DOC viste, la degustazione migliore, quella che veramente ci fa gustare tutte le sensazioni organolettiche di questo nettare, è quella da solo, lentamente, a fine pasto.
Note bibliografiche
- AAVV, Manuale del sommelier – Tecnica della Degustazione, Ed. AIS
- AAVV, Manuale del sommelier – Tecnica dell’abbinamento cibo/vino, Ed. AIS
- AAVV, Il vino italiano, Ed. AIS
- AAVV, I vini dolci muffati e passiti, Ed. Gribaudo
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