La carne tra bene e male

Non c’è pietra della discordia più attuale della carne e della scelta di nutrirsene o meno: ma cosa racconta la storia in merito?

La carne tra bene e male

Il ruolo della carne nell’alimentazione umana è un argomento che ha da sempre diviso popolazioni e culture attraverso i secoli, e in epoca contemporanea l’opinione pubblica è sempre più accesa sul dibattito “carne si, carne no”.  Ma in realtà la disputa ha radici antiche: scopriamole ripercorrendo un po' la storia e le ragioni socio-economiche che hanno dato vita ad un’altalenanza di “odio e amore” per la carne nel corso dei secoli.

Anzitutto, basta pensare alla differenza che intercorreva tra il mondo romano (mediterraneo) e quello anglosassone (d’estrazione barbarica). Il primo era fatto soprattutto di agricoltori e allevatori, convinti assertori non solo della giusta misura nel mangiare ma, come tutti i Paesi del Mediterraneo dell’epoca, anche dell’importanza e conseguente preminenza nell’alimentazione umana degli ortaggi, del pane e degli impasti di quell’epoca. Il popolo anglosassone, invece, non era fatto di agricoltori e tanto meno di allevatori, per cui la loro alimentazione era basata essenzialmente sulla caccia e quindi su tanta carne, affiancata al massimo dai prodotti vegetali del sottobosco. 

Nel 1700, presso le popolazioni dell’Europa del Nord, le patate (ormai dichiarate commestibili e inaspettatamente gustose risultate tali dopo lunghi decenni di diffidenza) compaiono in alcuni trattatisti di agricoltura e di gastronomia, e cercano di convincere che con esse si poteva fare anche il pane (bastava mescolare un po’ di farina di grano alle patate bollite e spellate, per avere pagnotte molto morbide e deliziose. I suggeritori però non avevano tenuto conto però che nei paesi dove si coltivavano molte patate (Centro e Nord Europa) la farina era molto costosa, per la difficoltà di coltivazione del frumento date le temperature non adatte allo sviluppo e maturazione delle spighe. Ne conseguiva una ridotta produzione e di conseguenza prezzi elevati. In realtà, anche il risultato organolettico non era dei migliori, per cui la proposta naufragò miseramente. 

L’esempio appena decritto del pane di patate rientrava tra tutti quei tentativi di educare i contadini a mangiare meglio, perché, secondo i più colti e abbienti, erano avari, e pur di vendere i propri prodotti rinunciavano al meglio per le proprie famiglie, mangiando cibi scadenti e talvolta anche avariati. Per questo motivo agli albori del Rinascimento si affermò la diceria che i contadini fossero “stupidi” perché mangiavano volutamente male.

In realtà, i contadini non erano stupidi ma più che altro non istruiti, esperti esclusivamente in materia agricola, con una intelligenza capace di indagare tra i vari fattori produttivi per cercare di ottenere produzioni da vendere e capaci anche di sfamarli. Da sempre costituivano la classe più povera della società per diverse ragioni, ma in particolare perché non erano proprietari delle terre: coltivavano quelle dei signori, contraendo con loro durante l’anno dei debiti per poter vivere con la famiglia e sostenere le spese di coltivazione. Alla fine, il raccolto non bastava nemmeno a pagare i debiti e si innescava un meccanismo perverso di miseria, malattie e solitudine sociale da cui il contadino e la sua famiglia non sarebbe più uscito, salvo che non decidesse di trasferirsi altrove per tentare di rifarsi una vita. 

Si conclude, contrariamente al pensiero dominante, che i contadini mangiavano male semplicemente perché erano sempre poveri. Tutte le disquisizioni provenivano da chi non soffriva la fame e nulla sapeva della triste condizione del contadino.

Nella successiva epoca Illuminista, si afferma il cambiamento dei costumi alimentari dei ricchi, in quanto cresce la coscienza che non bisogna mangiare troppo, che l’appetito eccessivo non equivale a forza fisica, che il cibo vegetale è da privilegiare perché favorisce leggerezza del corpo, efficienza mentale e lavorativa, è rispetto della natura, è per alcuni ascesi spirituale. Inoltre, procacciarsi cibo vegetale non comporta alcuna forma di violenza, consumarne è simbolo di pace e non violenza. 

Dietro alle scelte vegetariane moderne (vedi Rousseau) vi è anche la volontà di lasciarsi alle spalle l’ancienne regime con il suo lusso e la sua cultura alimentare ricca di sregolatezze. Il cambio di pensiero alimentare e gastronomico dei nobili comportò anche l’eliminazione di sapori forti connessi in genere proprio alle carni diversamente preparate, per introdurre elementi di morbidezza come miele, zucchero, salse grasse. Naturalmente si cercò di trasmettere tutto ciò anche alle classi popolari, agricole in particolare, per cui il contadino che prima non poteva mangiare carne perché povero (situazione già chiarita in precedenza), in seguito non doveva mangiarla perché essa faceva male, ed era un retaggio della nobiltà decaduta. 

Nel 1600 – 1700 si cercò, in definitiva, di diffondere la lotta contro gli eccessi, la pesantezza e l’opulenza, sconfessando perciò l’idea della forza connessa al cibo, cercando di far affermare la moderazione e la raffinatezza. È il crollo del consumo della carne, fino ad allora base dell’alimentazione dei ricchi (che in realtà non ne avrebbero avuto tanto bisogno), tanto sognata dai poveri i quali quando possibile erano sempre pronti ad esagerare pur di mangiarne tanta. Nascono diverse associazioni di vegetariani (la prima nel 1847 a Manchester) ma tutte di tipo elitario e prive di diffusione effettiva nella popolazione. Infatti, secondo molti storici il passaggio al vegetarianesimo (vitto pitagorico) fu non soltanto un modo della nobiltà e della borghesia di distinguersi dal passato regime, e per distinguersi dalle masse operaie e contadine, le quali invece non avevano mai dimenticato la carne e i cibi calorici e saporiti, visto che erano loro a lavorare tanto in tutti i settori. 

Essendo infatti proprio nobili e borghesi i proprietari delle aziende agricole, essi ridussero gli allevamenti incentivando le coltivazioni orticole e frutticole, creando non pochi problemi ai contadini e agli operai in genere, perché la carne cominciò a scarseggiare sui mercati e ad essere sempre più costosa e perciò ancora più lontana dalle mense popolari. La rinuncia alla carne non si affermò negli strati sociali più bassi, ma fu solo subita da questi come moda dei ricchi; gli operai continuarono a richiedere carne perché il lavoro era essenzialmente manuale e molto faticoso, necessitante quindi di alimenti più calorici, oltre che graditi al palato.

Crebbe quindi la richiesta di carne e derivati da parte della classe operaia e contadina. L’aumento della richiesta di carni coincise con scoperte e conseguenti innovazioni tecniche e tecnologiche nel campo alimentare, come inscatolamento asettico, pastorizzazione, sterilizzazione, congelamento, essiccazione controllata. Sempre per fortunate coincidenze, nel medesimo periodo (primi decenni del 1800) ci furono importanti scoperte nel campo della tecnica di allevamento animale, della genetica, della nutrizione degli animali domestici, oltre che in agricoltura con l’introduzione dei concimi, delle sementi selezionate, delle macchine agricole con conseguente aumento delle produzioni unitarie di grano, mais, orzo, avena,  e foraggi per gli animali. 

Alla ripresa del consumo di carne concorse anche lo sviluppo del motore a vapore, grazie al quale non solo furono facilitate tante fasi produttive, ma fu anche migliorata notevolmente la movimentazione delle merci, che divenne più rapida e con minori rischi di deterioramento delle merci, specialmente della carne. Fu proprio in tale periodo che nobili e borghesi intuendo i grandi guadagni che si potevano realizzare dalla carne, vista la grande richiesta, investirono i loro capitali nella industrializzazione alimentare di molte aree, accontentando in tal modo la richiesta di carne, aumentata anche per la riduzione del prezzo derivante dalle maggiori quantità prodotte in virtù delle scoperte sopra citate. 

Non si sbaglierebbe affermando che, certamente, gli interessi intravisti dagli industriali nel settore dell’alimentazione fecero sì che questi nuovi ricchi borghesi investissero somme per pagare ricercatori e sperimentatori di nuove tecniche di coltivazione e di allevamento, per favorire la costruzione di nuove attrezzature agricole e industriali e per la costruzione di strade e ferrovie per il trasporto più rapido e sicuro delle merci da vendere. 

Molti furono coloro che, pur di guadagnare, posero in atto vere e proprie truffe alimentari, anche con gravi conseguenze sulla salute. Famoso resta il caso di un tale Accum che, nel 1820, in Inghilterra, aveva preparato un libro con l’elenco delle sofisticazioni dei cibi. Il libro fu sottoposto all’attenzione del Parlamento, ma l’autore fu costretto a fuggire a causa delle minacce ricevute dai sofisticatori. 

Un risultato era stato comunque raggiunto: produrre, a partire dalla carne, cibo per tutti, accessibile alle masse in nome dell’affermazione delle nuove idee di libertà, fraternità e uguaglianza, ancora fresche di Rivoluzione Francese. Ed oggi, a ciascuno il proprio credo, ma soprattutto la propria (giusta) misura.
 

Note bibliografiche

  • M. Montanari – A. Capatti, La cucina italiana – Storia di una cultura, Ed. Laterza
  • M. Montanari, La fame e l’abbondanza, Ed. Laterza
  • M. Montanari, Il cibo come cultura, Ed. Laterza
  • Rebora, La civiltà della forchetta, Ed. Laterza

Scritto da Luciano Albano

Laureatosi nel 1978 con lode in Scienze Agrarie, presso l'Università di Bari, si è specializzato nel 1980 in "Irrigazione e Drenaggio dei terreni agricoli" presso il C.I.H.E.A.M. (Centro Internazionale di Alti Studi Agronomici del Mediterraneo) di Valenzano (Bari), ha conseguito nello stesso anno anche l'abilitazione alla professione di Agronomo. Fino al 1/3/2018 ha lavorato alla Regione Puglia nell'Ufficio Territoriale di Taranto, quale Responsabile della P.O. "Strutture Agricole". Appassionato di olio e vino ha conseguito il Diploma di Sommelier AIS nel 2005 e ottenuto nel 2008 l'Attestato di Partecipazione alle Sedute di Assaggio ai fini dell'iscrizione nell'Elenco Nazionale di Tecnici ed Esperti degli oli di oliva extravergini e vergini. Fino al 2018 è stato iscritto all'Albo Provinciale dei Dottori Agronomi e Forestali e come CTU presso il Tribunale di Taranto. Ama il food & beverage e ne approfondisce i vari aspetti tecnici, alimentari e storici

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