Il Piacentinu ennese

E’ il formaggio DOP siciliano che rappresenta un trionfo di sapori di latte e spezie: scopriamo com’è fatto e come gustarlo al meglio

Il Piacentinu ennese

La Sicilia è una splendida terra, non solo per la sua storia, arte, cultura e gente, ma anche per la raffinatezza dei prodotti frutticoli, orticoli, dolciari, norcini, nonché caseari (con tanti prodotti a marchio PAT e 4 DOP: il Ragusano, il Pecorino siciliano, il Vastedda del Belice e il Piacentino ennese). Particolare interesse riveste il formaggio Piacentinu Ennese (in siciliano “Piacentinu ennesi”), tanto interessante per la sua origine e tradizione, oltre che per le caratteristiche organolettiche, da ottenere nel 2007 il riconoscimento DOP. 

Il piacentinu ennese è in realtà una variante dei formaggi di pecora siciliani, in quanto la tecnologia di base utilizzata è la medesima del Pecorino siciliano DOP, ma nei confronti del quale vi è non soltanto una differente stagionatura minima (di 4 mesi per il Pecorino e di 60 giorni per il Piacentinu) ma anche l’aggiunta di zafferano e di pepe in grani o grossolanamente macinato.

Diciamo subito che per produrre il piacentinu ennese si parte dal latte ovino, prodotto esclusivamente da razze ben precise e autoctone, cioè originarie della Sicilia o quanto meno di antichissima introduzione (Comisana, Pinzirita, Valle del Belice) o da loro meticci o incroci (in zootecnia meticcio o incrocio è un soggetto nato da genitori appartenenti a razze diverse della stessa specie animale, mentre nelle piante si parla di ibrido), allevati nel comune di Enna e in altri 8 della stessa provincia. L’alimentazione che le pecore devono ricevere è stabilita dal disciplinare, con esclusione assoluta degli OGM: comprende, oltre ai classici alimenti e pascolo, anche i cladodi del fico d’India e le frasche della potatura invernale degli olivi (quella che si pratica dopo la raccolta delle olive). 

Trattandosi di un formaggio a marchio DOP, l’allevamento delle pecore, la produzione del latte, la sua trasformazione e confezionamento devono avvenire tutti nel territorio individuato dal disciplinare di produzione approvata dall’Unione Europea. Il latte (che proviene da due successive mungiture della giornata) non viene scremato, nemmeno parzialmente, ma si usa intero (quindi con tutta la sua quota di grasso, che ricordiamo nelle pecore si aggira intorno al  6,3-6,5%, mentre per la vacca è il 3,5-4%, per la capra 3,2-3,5% e per la bufala 8,2-8,6%) e crudo, cioè riscaldato al massimo a una T di 38° in caldaia (refrigerato a 4°C in attesa della lavorazione) e poi versato (filtrandolo con setacci) in una tina di legno, nella quale si farà coagulare grazie all’aggiunta del caglio o presame

A parte, prima di aggiungere il caglio, si scioglie in acqua tiepida dello zafferano (ne serviranno al massimo 5 gr per 100 litri di latte; si tratta di zafferano coltivato in provincia di Enna, a rinforzare il legame del prodotto con il territorio), dopodiché il latte assume un bel colore giallo oro. A questo punto, si aggiunge il caglio di agnello o di capretto in pasta, la cui azione enzimatica farà agglomerare tra loro le proteine del latte formando la cagliata. Sarà proprio il caglio ovino o caprino a conferire durante la stagionatura le caratteristiche al Piacentinu, specialmente per quanto riguarda la piccantezza (dovuta alla trasformazione delle proteine in singoli amminoacidi). 

Tra inizio coagulazione e indurimento della cagliata trascorrono circa 45 minuti, in funzione della quantità di caglio che si è deciso di immettere nel latte caldo a 38°C. La cagliata viene frantumata, con un bastone di legno detto rotula, in granuli grossolani, ai quali si aggiunge un po’ di acqua a 75°C per favorire il successivo spurgo, cioè il rilascio del siero di latte; si prosegue nella rottura fino a quando i granuli raggiungono la dimensione di un chicco di riso. Continuando a girare il bastone nella cagliata, si determina il posarsi sul fondo di essa e la separazione in superficie del siero. La massa sarà estratta dal siero, posta su tavole di legno o ripiani di acciaio, rotta grossolanamente e fatta sgocciolare per un po’ di tempo; seguirà l’inserimento dei grossi pezzi di cagliata nei canestri di giunco (gli stessi che lasceranno traccia del loro intreccio sulla crosta del formaggio), aggiungendo grani di pepe nero con diversi interventi, durante i quali la massa verrà sempre schiacciata per spurgare il siero e in modo tale da distribuire in modo omogeneo il pepe nella massa. 

I canestri vengono a questo punto messi in un’altra tina sotto scotta (siero) caldo, per 3-4 ore. Trascorso questo tempo le forme si estraggono dai canestri e si pongono ad asciugare a T ambiante per 24 ore. Successivamente si procede alla salatura a secco (quindi non si prepara la salamoia), effettuandolo per 2 volte a distanza di 10 giorni. Inizia adesso la stagionatura che al minimo sarà di 60 giorni; ovviamente si porranno le forme in locali freschi, con finestre alte e tali da creare una leggera ventilazione che asciugherà le forme, favorendo l’avvio delle reazioni chimiche della stagionatura (la T del locale sarà di 8-10°C e l’UR del 70-80% in modo da evitare lo sviluppo di muffe, ma ancor più evitare che il formaggio si asciughi troppo velocemente con il rischio di spaccarsi, favorendo lo sviluppo di muffe e batteri nocivi per il prodotto). Si noti che nel processo non è ammesso l’uso di additivi diversi dagli unici due citati (zafferano e pepe nero).

Il Piacentinu ennese è quindi un formaggio a latte ovino intero crudo (come detto il latte non viene pastorizzato ma portato al massimo a 38°C, lasciando così attivi molti microrganismi naturalmente presenti nel latte appena munto, i quali guideranno tutte le reazioni di stagionatura), a pasta dura (contenuto di acqua inferiore al 40%), grasso (perché deve avere almeno il 40% di grassi sulla sostanza secca, ma in realtà supera il 42, passando così dai semigrassi a grassi), con proteine pari al 35% minimo, sale al massimo per il 5% sulla s. secca. L’apporto energetico per 100 g è piuttosto elevato (circa 350 kcal), per cui è meglio non esagerare con il consumo. In commercio il Piacentinu ennese si presenta con forma cilindrica, diametro di cm 20-21, scalzo di cm 14-15, leggermente convesso e talora quasi dritto e talora concavo in dipendenza delle caratteristiche del canestro usato per la data forma; il peso della forma è di circa 3,5-4,5 kg. 

La crosta di questo formaggio è di colore giallo zafferano e porta evidenti le tracce del canestro, la pasta è gialla anch’essa, l’occhiatura è minima (buchi piccoli per ridotte reazioni che producono anidride carbonica, come avviene per esempio, ma in misura molto superiore, nell’Emmental e nell’Asiago), la superficie è liscia e non granulosa, non vi sono tracce di trasudazione di grassi. Quest’ultimo aspetto dimostra non attendibile la convinzione di molti per cui il nome Piacentinu deriverebbe da “piangente” con riferimento alla lacrima di grasso, mentre attendibile è la derivazione da “piacente” cioè che piace.

In cucina il Piacentinu ennese può essere formaggio da tavola o da grattugia se stagionato per 6 mesi e più. Può essere consumato a fine pasto da solo, oppure durante il pasto in accompagnamento ai tanti ortaggi e frutti isolani (fave fresche, pomodori, olive in conserva, pere, fichi freschi o secchi, frutta secca) o a preparazioni a base di melanzane (come la caponata di melanzane). Ovviamente può essere utile per farcire panzerotti, involtini, saccottini e nelle classiche ricette ennesi del capretto imbottito e del carciofi al piacentinu. Ottimo se usato per fare le arancine o fritto in padella, oppure nell’antipasto all’italiana.

Per i vini: essendo formaggio grasso dovranno essere acidi per sgrassare la bocca e anche per contrastare la tendenza dolce del formaggio; profumati perché troviamo aroma di zafferano e di pepe; morbidi per via della piccantezza del pepe; non avendo in bocca succulenza e untuosità eccessive non ci sarà bisogno di un grado alcolico elevato. In conclusione, se mangiato in purezza abbineremo dei bianchi giovani, profumati, morbidi e volendo frizzantini. Andranno bene anche i rosati con stesse caratteristiche, perché con il loro tannino ridotto sciacqueranno la bocca dalla untuosità e dalla salivazione indotta dal poco sale del formaggio. Se il Piacentinu Ennese è invece impiegato nelle pietanze, allora il vino da abbinare sarà funzione delle caratteristiche di esse. 
 

Note bibliografiche

  • Lombardo, I formaggi nella cucina della tradizione regionale siciliana. La varietà, peculiarità e versatilità dei formaggi siciliani dal tempo del mito a oggi, Ed. La Moderna
  • Mucchetti – Neviani, Microbiologia e tecnologia lattiero – casearia, Ed. Tecniche Nuove
  • AA.VV., Tecnica dell’abbinamento cibo vino, Ed. AIS
  • AA.VV., Merceologia degli alimenti, Ed. AIS

Scritto da Luciano Albano

Laureatosi nel 1978 con lode in Scienze Agrarie, presso l'Università di Bari, si è specializzato nel 1980 in "Irrigazione e Drenaggio dei terreni agricoli" presso il C.I.H.E.A.M. (Centro Internazionale di Alti Studi Agronomici del Mediterraneo) di Valenzano (Bari), ha conseguito nello stesso anno anche l'abilitazione alla professione di Agronomo. Fino al 1/3/2018 ha lavorato alla Regione Puglia nell'Ufficio Territoriale di Taranto, quale Responsabile della P.O. "Strutture Agricole". Appassionato di olio e vino ha conseguito il Diploma di Sommelier AIS nel 2005 e ottenuto nel 2008 l'Attestato di Partecipazione alle Sedute di Assaggio ai fini dell'iscrizione nell'Elenco Nazionale di Tecnici ed Esperti degli oli di oliva extravergini e vergini. Fino al 2018 è stato iscritto all'Albo Provinciale dei Dottori Agronomi e Forestali e come CTU presso il Tribunale di Taranto. Ama il food & beverage e ne approfondisce i vari aspetti tecnici, alimentari e storici

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