Cheddar: come mozzarella e Parmigiano

Uno è un inglese, gli altri italiani, e sono formaggi tanto amati nel mondo dall’avere lo stesso grande problema, quello delle imitazioni

Cheddar: come mozzarella e Parmigiano

Lotta alle imitazioni e difesa dell’autenticità dei prodotti alimentari tipici sono temi portati all’attenzione dell’opinione pubblica e dei consumatori già più di vent’anni fa. Ma ancora oggi si discute di leggi e tutele, dal momento che l’istituzione di marchi e certificazioni ufficiali pare sia servita a poco in merito. 

L’apposizione sui prodotti alimentari di etichette e simboli ben riconoscibili che ne sanciscono l’appartenenza a specifici organismi di tutela, promozione e controllo e/o al sistema europeo delle eccellenze enogastronomiche DOP, rappresenta un espediente rivelatosi utile a fornire indicazioni e favorire una veloce individuazione tra gli scaffali per il consumatore interessato (e con il portafogli sufficientemente pieno) ad acquistare nel nome dell’autenticità, vivendo in prima persona l’investimento anche come contributo al senso di premialità dell’azienda che custodisce, coltiva e tramanda tradizioni antiche.

Nella realtà odierna però, ben più ampia è la fascia di popolazione che nel mondo intero cerca sempre più di mangiar bene a buon mercato, accettando senza alcun problema che un alimento tipico non sia esattamente l’originale pur di avere l’occasione (o forse è meglio dire l’illusione) di assaggiarlo, in casa come al ristorante. Il tutto incentivato naturalmente dalla globalizzazione, il cui ultimo tassello d’espressione – il web – continua a dar vita di continuo a mode e trends internazionali che portano al successo del push marketing anche nelle ondate di richiesta specifica di ingredienti e pietanze molto in voga in paesi diversi dal proprio.  

Per farvi riflettere su quanto il “fenomeno dell’inganno” riguardi attualmente sempre più prodotti e ricette internazionali oltre il solo e ben noto italian sounding, pensate a tutte quelle persone che sui social hanno iniziato a chiamare “hummus” qualsivoglia purea di ceci (anche per condire la pasta), o ai ristoranti che pur di definire una “New York Cheesecake” nella carta dei dolci ne modificano gli ingredienti, spesso la destrutturano, la adattano al palato nazionale e in un sol boccone la denaturalizzano. 

E poi ci sono i formaggi, a dimostrazione che i sapori globalmente più amati fanno molto più in fretta a diventare oggetto di imitazioni volte oggi all’onnipresenza nei piatti contemporanei di tutto il globo. E se prima potevamo pensare che questo fenomeno riguardasse quasi esclusivamente le eccellenze italiane, in primis la mozzarella e il Parmigiano Reggiano, oggi c’è un altro formaggio che sta godendo di grande fama internazionale a beneficio delle tasche di aziende produttrici che hanno ben poco a che fare con il prodotto originario. 

Stiamo parlando del cheddar, arancio e filante desiderio contemporaneo che corona il gusto di hamburger, panini, wrap, toast e sandwich fino a patate fritte o al forno e altre tipologie di verdure gratinate, sformati e torte salate. Ma siete certi di conoscere il “vero cheddar”? Quello che ritroviamo nelle pietanze di tutto il mondo è cosa ben diversa: avrebbero di certo molto da raccontare in merito i produttori di Cheddar artigianale del Somerset (Presidio Slow Food inglese) e non solo, dal momento che diverse realtà anglosassoni, pur senza possedere marchi, producono svariate tipologie di ottimi cheddar. 

Il cheddar originale non nasce affatto come formaggio morbido adatto all’ottenimento di sottilette e filoni comodi da scartare e tagliare a fette per essere lasciati fondere sugli alimenti rendendoli più saporiti e cremosi: in vero questo è quel che tutti avrebbero dovuto chiamare con il suo reale nome di American Cheese, dal momento che non solo la somiglianza, ma anche e soprattutto il suo legame con il cheddar inglese è molto labile. Semplicemente il cheddar - sia esportato che prodotto nel Nuovo Mondo nel corso del Settecento dai coloni inglesi - fu il mezzo per esportare le tecniche di caseificazione europee in America, ma la storia in comune tra cheddar inglese e American cheese non va particolarmente oltre a questa singola evidenza. 

Esiste dunque una profonda differenza tra “vero cheddar” e “cheddar globalizzato”. L’originale è un ottimo formaggio a pasta dura, la cui produzione adottata nel corso del tempo dai sistemi industriali ha portato a diverse trasformazioni: ed è così che oggi il cheddar che tutti conoscono oggi al di fuori del Regno Unito non è da scaglia ma da taglio, non viene elaborato in forma rotonda ma quadrata, non vede una maturazione minima pari a un anno, ma anzi massima di sei mesi. 

E ancora, il caglio animale utilizzato da coloro che ancora oggi sono i produttori dell’autentico Cheddar artigianale inglese è stato sostituito nei grandi impianti di produzione dal caglio vegetale, più gradito in etichetta ma che conferisce spesso un retrogusto amaro all’impasto del formaggio, rendendo necessaria addirittura l’aggiunta di zucchero. Il Cheddar artigianale non contiene additivi o coloranti artificiali, poiché il suo colore può essere variabile, influenzato dall’alimentazione degli animali. L’accattivante colore arancio acceso “globalizzato” è ottenuto semplicemente con l’aggiunta di annatto (pigmento rosso naturale utilizzato per colorare tanti alimenti, importato principalmente dal Sud America). 

Per non parlare del gusto, che nel caso del vero cheddar riserva grandi emozioni, mentre in quello industriale al confronto è praticamente assente, quasi “inventato” dalle menti dei consumatori alla vista e al desiderio di un formaggio fuso così accattivante, morbido, lucido e colorato. Proprio come la “mozzarella”, il cui nome è diventato sinonimo dei pratici filoni di caseinati insapore di bassa qualità utilizzati da innumerevoli pizzerie, bar, street food e ristoranti (ormai anche qui in Italia), o come il Parmigiano Reggiano, che dentro l’odiata traduzione “Parmesan” cela formaggi grana di varia origine stagionati solo il minimo indispensabile, privi di qualsivoglia accenno di personalità e reale senso di qualità. 

Chissà se la legislazione internazionale, a prescindere da marchi e certificazioni posseduti o meno dalle aziende produttrici, riuscirà prima o poi a trovare il modo di conciliare i diritti dei produttori dell’alimento autentico con quelli dei consumatori e dei concorrenti industriali che attraverso un “nome comune di alimento” sempre più si orientano quotidianamente nelle scelte dei gusti più desiderati per i propri acquisti.

Scritto da Sara Albano

Laureata in Scienze Gastronomiche , raggiunta la maggiore età sceglie di seguire il cuore trasferendosi a Parma (dopo aver frequentato il liceo linguistico internazionale), conseguendo in seguito alla laurea magistrale un master in Marketing e Management per l’Enogastronomia a Roma e frequentando infine il percorso per pasticceri professionisti presso la Boscolo Etoile Academy a Tuscania. Dopo questa esperienza ha subito inizio il suo lavoro all’interno della variegata realtà di Campoli Azioni Gastronomiche Srl, , dove riesce ad esprimere la propria passione per il mondo dell'enogastronomia e della cultura alimentare in diversi modi, occupandosi di project management in ambito di promozione, eventi e consulenza per la ristorazione a 360°, oltre ad essere referente della comunicazione on e offline di Fabio Campoli e parte del team editoriale della scuola di cucina online Club Academy e della rivista mensile Facile Con Gusto.

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