L'Aglianico del Vulture

Nella versione riserva a marchio DOCG, viene definito da tanti esperti di vino come “il Barolo del sud”: ecco le sue qualità e la sua storia

L'Aglianico del Vulture

Definito da tanti esperti “il Barolo del Sud” (nella tipologia Riserva), questo superbo vino rosso invecchiato è simbolo indiscutibile della Basilicata, terra orgogliosa delle sue asprezze, gelosa del proprio isolamento che ha conservato intatti ambiente naturale, carattere e saggezza degli abitanti (strenui nemici degli antichi Romani, che faticarono non poco per piegarne la resistenza!).

Del prezioso nettare rosso del Vulture, si racconta che sarebbe stato usato dai soldati di Annibale (qui ritiratisi nel 216 a.C. sia per curare le ferite che per deliziare l’animo desideroso di un po’ di riposo dopo le accese battaglie sostenute). Questo vino sapido e profumato, forte di alcol e di corpo, era anche molto apprezzato dal papa Paolo II Farnese (), molto attento ad assaggiare i vini delle diocesi che visitava. Lo stesso dicasi per Ferdinando di Borbone, che lo degustò sino a pochi anni prima della sconfitta subita ad opera di Garibaldi.

Coltivato in tutto il nostro meridione e nelle due grandi isole, ma specialmente nella zona del Vulture (vulcano spento, in provincia di Potenza, altro 1326 m), gli studiosi ritengono che gli antichi Romani usassero proprio questo vitigno per produrre il famoso vino Falerno (il più amato dai Romani e prodotto in quel di Caserta intorno al III sec. a.C.; oggi noto come Falerno del Massico, nei tipi rosso da Aglianico e Primitivo, bianco da Falanghina), nel Registro Nazionale delle varietà  e cloni della vite coltivabili in Italia questo vitigno è identificato con il codice 266 “Aglianico del Vulture N.”, con sinonimo “Aglianico N.” – cod. 002. Rappresenta dunque un biotipo della vasta popolazione degli Aglianici differenziatisi, nel corso della loro coltura millenaria, in una zona di vastissima estensione che comprendeva la Campania, la Puglia, la Basilicata, il Molise, ma anche il basso Lazio, l’alta Calabria e, in tempi più recenti, la Sardegna. 

Come si legge nel Registro Nazionale dei vitigni, i sinonimi accumulati da questo antichissimo vitigno appartengono ormai alla sua storia, ancora oggi, molti di essi continuano ad essere in uso in alcune zone dell’ Irpinia e dalla Basilicata. Tra i più diffusi nelle diverse epoche e località si ricordano: Aglianica, Agnanìco, Gnanico (a Potenza, Napoli, Salerno, Avellino, Benevento); Ellenica, Ellenico (a Torre del Greco, Taurasi e Campomaggiore); Ellanico (a Macchiagodena);; Aglianico tringarulo, Trignarulo (a Calitri); Agliatico (a Gesualdo); Aglianico zerpoluso (ad Avellino); Glianica (a Pontelatone); Ghianna (a Rocca Romana); Uva dei cani (a Corato, Telve, Sogliano, Salve); e tanti altri ancora. La dimostrazione dell’antica introduzione in Puglia nei pressi di Taranto è data dai sinonimi  Agnanico di Castellaneta (a Mottola e Castellaneta - Taranto); Agitano, Gagliano (a S. Marzano di San Giuseppe - Taranto), Uva di Castellaneta (a Pulsano - Taranto, Francavilla Fontana - Brindisi), Uva dei cani (a Corato – Bari).

Con il Decreto del 30 Maggio 2018, pubblicato in Gazzetta ufficiale n. 133 dell 11/06/2018, è stata riconosciuta la sinonimia tra Aglianico del Vulture N. (266) e Aglianico N. (002). Citato per la prima volta dall’Acerbi nel 1825, sembra che furono i Greci a introdurlo sulle coste del Mar Tirreno quando stavano fondando nuove colonie (VI – VII sec. a.C.); questo spiegherebbe i sinonimi di Ellenico ed Ellanico (da Hellenikon, hellenico in ellenico) trasformatisi poi in Aglianico durante la dominazione spagnola         (1400 – 1500), nella cui lingua la doppia elle si trasforma in gli in italiano.

Altra ipotesi per il nome è quella che deriverebbe dal greco aglianos cioè chiaro e da agliaia cioè splendente, per distinguerlo da altri vini campani come il Lacryma (dal vitigno Piedirosso; ne esiste oggi anche uno bianco da Falanghina e altri vitigni bianchi campani) e il Mangiaguerra (dall’omonimo vitigno nero, biotipo locale dell’Aglianico), decisamente più scuri. Infine un’ulteriore ipotesi: il nome antico di “glianico” deriverebbe dallo spagnolo “llano”, che vuol dire pianura/piano, per cui indicherebbe che quest’uva era coltivata in pianura (quindi: uve della pianura) con la  domesticazione di uve selvatiche. 

La forma di allevamento tradizionale per questo vitigno era quella detta "alla latina" rappresentata da una o più viti allevate ad alberello e sorrette da alcune canne. Una di queste, la più robusta, doveva anche contrastare la spinta del vento dominante (canna controvento), con tre varianti: a "Pagliaio" o alla "Pagliarella", a "Ventaglio", a "uno". L’Aglianico del Vulture fiorisce tra fine maggio e metà giugno, invaia (cambio colore acino) tra fine agosto o metà settembre, matura tra 15 ottobre e 10 novembre; sulla pianta compaiono  1 - 2 grappoli, del peso di appena 200 g ciascuno (140 g – 290 g), corrispondenti a 40-60 q/ha nelle zone meno fertili, 80-100 q/ha nelle zone più favorevoli (nella zona del Vulture viene coltivato fino a 700-900 m di altitudine.  Attualmente la forma di allevamento più diffusa per questo vitigno è la controspalliera (derivata dal Guyot), ad alberello in zone meno fertili.

L'Aglianico è un vitigno tipicamente da vino con prevalente vinificazione in purezza. L’Aglianico del Vulture rientra nella produzione della DOCG Aglianico del Vulture Superiore, nella DOC Aglianico, nella IGT Basilicata. Riconosciuto vino DOC nel 1971, l’Aglianico del Vulture Superiore ha ottenuto il riconoscimento DOCG nel 2010, affermandosi ancor più come eccellenza della vitivinicoltura lucana.

I tipi prodotti sono due: Aglianico del Vulture Superiore e Aglianico del Vulture Superiore Riserva, entrambi prodotti con uve Aglianico del Vulture N. e/o Aglianico N., ottenute nei territori di 15 comuni della zona (da Rionero in Vulture a Genzano di Lucania). Nei vigneti iscritti alla DOCG la densità dei ceppi non deve essere inferiore a 3.350/ha in coltura specializzata, con allevamento ad alberello o spalliera semplice, coltivati solo su terreni collinari con altitudine tra 200 e 700 m, che come si legge nel Disciplinare sono “terre che presentano un elevato contenuto in potassio e, più in generale, di elementi nutritivi e che risultano idonee ad una vitivinicoltura di qualità, con basse rese produttive e capaci di conferire ai vini particolare vigore e complessità”, considerato che “l’origine vulcanica e arenaria (dei terreni, ndr) determinano la presenza di suoli diversi che vanno dal tipo sabbioso, sabbioso pozzolanico al limoso-argilloso, tutti caratterizzati da evidente presenza di abbondanti formazioni colloidali sicuro presupposto di fertilità”. 

Trattandosi di DOCG le operazioni di vinificazione, di invecchiamento obbligatorio e di imbottigliamento devono essere effettuate nell'ambito della zona di produzione indicata dal Disciplinare, con resa in vino delle uve pari al max al 65% della massa uvifera, pari a 52 hl/ha. Se si giunge fino al 70% la parte in eccedenza non può essere riconosciuta a DOCG, se si supera il 70% tutta la produzione di vino dell’annata non viene riconosciuta a DOCG.

Per quanto riguarda il vino ottenuto, il Disciplinare prevede che esso non possa essere immesso al consumo prima del 1° novembre del terzo anno successivo a quello dì produzione delle uve, dopo un periodo di invecchiamento obbligatorio di almeno 12 mesi in contenitori di legno e almeno 12 mesi in bottiglia. Per il tipo Riserva è previsto che venga immesso al consumo a partire dal 1° novembre del quinto anno successivo a quello di produzione delle uve, dopo un periodo di invecchiamento di almeno 24 mesi in contenitori di legno e almeno 12 mesi in bottiglia.

Il titolo alcolometrico minimo deve essere pari a 13,5°, il colore rosso rubino tendente al granato (con riflessi aranciati nei vini più invecchiati), secco, sapido, di gusto delicato e profumo caratteristico, intenso, etereo, in cui si riconoscono la confettura di marasca, prugna, mandorla, viola, spezie e sentori animali come il cuoio e legno a seconda dei recipienti di legno usati per l’invecchiamento. Equilibrato, giustamente tannico e vellutato, migliora dopo adeguato invecchiamento in botti di rovere, favorito dalla sua elevata gradazione alcoolica e dal buon livello dell’acidità totale; notevole la persistenza gustolfattiva.

Come si può leggere nel Disciplinare: “Al sapore tutti i vini presentano un’acidità normale, un accenno di amaro ed una possibile residua astringenza tipiche dei vitigni, ma, soprattutto, un’ottima struttura  che contribuiscono al loro equilibrio gustativo e ad evidenziare una grande longevità del prodotto”. Inoltre: “Indubbiamente molto del particolare “bouquet” del vino "Aglianico del Vulture" è dovuto a questa maturazione prolungata in presenza di un clima che mette a dura prova la vitalità stessa della pianta (per eccessi climatici), ma che è significativamente caratterizzato da una frequente ed elevata escursione termica tra notte e giorno durante i mesi più caldi”.

A tavola l'Aglianico del Vulture dev'essere accompagnato con preparazioni alla sua altezza per struttura e complessità. La temperatura di servizio è di 18 – 20°C, e gli accostamenti migliori sono quelli con primi molto sapidi, meglio ancora se piccanti, quali sughi a base di carne, agnello o pecora cotti in casseruola (con o senza pomodoro), carni cotte alla griglia, carni di selvaggina da pelo (come la lepre in salmì e la spalla di cinghiale arrosto), formaggi stagionati (come gli ottimi pecorini del territorio lucano) e salumi stagionati.

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Note bibliografiche
Registro Nazionale dei Vitigni
I grandi lbri del vino - I vini rossi da invecchiamento, Gribaudo Editore 
Calò/Scienza/Costacurta, Vitigni d’Italia Calderini, Edagricole
Il vino italiano, 1° e 2° vol., AIS
Disciplinare di produzione vino Aglianico del Vulture

Photo made in AI

Scritto da Luciano Albano

Laureato con lode in Scienze Agrarie presso l’Università degli Studi di Bari nel 1978, ha svolto servizio come dirigente del servizio miglioramenti fondiari della Regione Puglia presso l’Ispettorato Agrario della città di Taranto. Appassionato di oli e vini, ha conseguito il diploma di sommelier A.I.S. e quello di assaggiatore ufficiale di olio per la sua regione

Già specializzato in Irrigazione e Drenaggio dei terreni agricoli presso il C.I.H.E.A.M. di Bari (Centre International de Hautes Etudes Agronomiques Mediterraneennes), nonché iscritto all'Ordine dei Dottori Agronomi della Provincia di Taranto e nell'Albo dei C.T.U. del Tribunale Civile di Taranto

, da sempre ama approfondire il food e il beverage per metterne in rilievo ogni sfaccettatura.

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