Un risotto inaspettato, che unisce il gusto morbido delle lenticchie alle note profumate del caffè
Conoscere, scegliere, conservare e utilizzare al meglio il tartufo in cucina per esaltare con classe pietanze tradizionali e creative
Il tartufo è un fungo del genere Tuber (con coesistenza di tante specie, tra le quali poche sono però considerate di reale pregio e ricercate) che cresce completamente sotto terra (per questo motivo è detto fungo ipogeo) dove non visto nasce, cresce e muore, raggiungendo una grandezza che può andare da pochi centimetri fino ad un massimo di 20-25 cm.
Si sviluppa a stretto contatto con le radici dei pioppi, dei faggi e dei lecci, prediligendo soprattutto quelle delle querce, piante con le quali il fungo vive in simbiosi (l’insieme fungo e radici si chiama micorriza), ricevendo dalle piante alimenti che da solo non riesce a sintetizzare, cedendo alle piante elementi minerali che queste non riuscirebbero ad assorbire dal terreno, specialmente azoto per le proteine. La micorriza non è esclusiva del tartufo, visto che circa altre 70 specie di fungo vivono in simbiosi sulle radici di diverse piante, così come altre piante come le orchidacee.
La massa interna del tartufo (che in realtà è soltanto il corpo fruttifero del fungo, da cui nascono poi le spore brune che provvederanno a diffondere i fungo nel terreno) è detta gleba, mentre la corteccia si chiama peridio; la gleba si presenta marmorizzata, di colore variabile dal bianco al nero, dal rosa al marrone; mentre il peridio può essere liscio o verrucoso, di colore variabile dal chiaro allo scuro in funzione della specie e di molti fattori ambientali.
I tartufi sono notissimi per la loro importanza gastronomica e il loro valore commerciale. Le specie eduli crescono in Italia e Francia. La principale di esse è il tartufo bianco o trifola (Tuber magnatum), che cresce soprattutto in Piemonte, oltre che in Emilia e in Istria, interrato preferibilmente nei boschi delle citate piante, ma anche di nocciolo e salice.
Se il migliore di tutti tartufi è quello bianco, anche il tartufo nero o scorzone (Tuber melanosposrum) di Norcia o di Spoleto è molto pregiato per il suo profumo e per il suo gusto squisito: cresce in Piemonte, Lombardia, Trentino e nell’Appennino Centrale Umbro – Marchigiano, prediligendo terreni calcarei, formando micorrize con le piante del genere quercia in particolare. Per merito gastronomico decrescente si ricordano altri tartufi come T. mesentericum, T. macrosporum, T. aestivum, T. Borchii, T. brumale.
L'Italia è il primo produttore ed esportatore al mondo del Tuber magnatum bianco, pregiato per quanto riguarda la qualità e quantità; nell'intera Penisola è possibile raccogliere tutte le specie di tartufo impiegate in gastronomia: infatti oltre alle già citate regioni si possono affiancare la Campania (nel Sannio e in Irpinia), Calabria, Basilicata e Sicilia, anche se qui si tratta più di impianti micorrizzati di querce ed altre essenze che possono entrare in simbiosi con il fungo (tartufaie appositamente impiantate).
La determinazione delle diverse specie di tartufi è basata essenzialmente su caratteri morfologici come forma, dimensione, colore, ornamentazioni del peridio, aspetto della gleba, profumo e sapore. La determinazione della specie in laboratorio avviene attraverso il riconoscimento delle spore oppure con tecniche di analisi biomolecolare. Nel mondo le specie di funghi attualmente classificati come Tuber sono circa 63, in Italia ne sono presenti 25, ma solo 9 sono considerate commestibili e 6 quelle più comunemente commercializzate.
La raccolta del tartufo si può fare nei periodi stabiliti dalla legge e dai regolamenti di ogni Regione: essa varia con la specie da raccogliere (per alcune molti mesi, per altre pochi mesi all’inizio o alla fine dell’anno); come è noto, viene fatta utilizzando i cani da tartufo debitamente addestrati e non più (anche perché vietato dalla legge) il maialino, in quanto questo animale tendeva a mangiare il fungo trovato senza cederlo al padrone, oltre a danneggiare molto l’ambiente durante la ricerca. Un tempo si usava il cinghiale per la raccolta del tartufo, ma l’animale selvatico era pericoloso e non cedeva il fungo, per cui il metodo fu ben preso abbandonato.
La legge 16 dicembre 1985, n. 752, "Normativa quadro in materia di raccolta, coltivazione e commercio dei tartufi freschi o conservati destinati al consumo" ha dato mandato alle Regioni di regolare la raccolta sul proprio territorio, stabilendo alcune regole comuni:
- è vietato commercializzare tartufi immaturi o non appartenenti alle 9 specie elencate nella legge;
- la raccolta dei tartufi è libera nei boschi e nei terreni non coltivati, compresi i pascoli;
- la raccolta nelle tartufaie "coltivate" (sono quelle create ex novo dall’uomo) ed in quelle "controllate" (sono quelle naturali tenute in buona coltivazione dal conduttore) compete ai titolari della loro conduzione, se debitamente autorizzate, delimitate e segnalate;
- la raccolta tramite zappatura, sarchiatura e aratura è severamente punita in quanto uccide il fungo;
- è vietato l'utilizzo del maiale per la ricerca del tartufo, a causa dei danni ambientali provocati da questo animale nella ricerca.
La normativa obbliga a ricoprire la buca, per evitare il danneggiamento del micelio del fungo, vieta la raccolta nelle ore notturne e vieta anche la vendita dei tartufi freschi fuori dal periodo ufficiale di raccolta.
La conservazione del tartufo (specialmente di quello bianco) dovrebbe essere limitata al minimo, da fare solo se necessario, per cui il consumo dovrebbe avvenire quando il prodotto è ancora fresco. Volendo conservare si può ricorrere alla carta o al riso. Utilizzando la carta, occorre mettere il tartufo, senza lavarlo né pulirlo, avvolto a pezzi singoli in carta porosa e assorbente (carta da cucina o carta paglia), poi riporlo in vasetti di vetro a chiusura ermetica, da sistemare nello scomparto meno freddo del frigorifero; la carta va sostituita se si inumidisce e ogni tanto occorre asciugare il fungo dalla eventuale condensa.
Con il metodo del riso, invece, i tartufi vengono immersi completamente nel riso crudo riposto in vasetti ermetici, poi sistemandoli sempre nella parte meno fredda del frigo. Secondo alcuni questo metodo asciugherebbe meglio il tartufo e insaporirebbe naturalmente il riso per utilizzarlo poi in grandiosi risotti. In ogni caso, il tartufo sarà da consumare preferibilmente entro un massimo di 6/7 giorni. Per protrarre la sua durata, il tartufo può essere anche surgelato o immerso in liquidi di governo, ma l’aroma ne risentirà moltissimo.
In cucina c’è una buona regola da seguire con i tartufi: usarli per abbinamenti semplici, quindi mai all’interno di piatti troppo elaborati (specialmente quello bianco), con salse e condimenti ricchi e la mescolanza di tanti ingredienti e sapori. Esempio tipico sono le semplici uova al tegamino, sulle quali affettare in sottili lamelle il tartufo farà la gioia di ogni palato. Ottimo anche l’abbinamento con carne cruda di vitello, tagliata a fette sottilissime o tritata, condita con un filo di extravergine.
Da menzionare certamente è l’abbinamento del tartufo con la fonduta piemontese, mentre per quanto riguarda i primi piatti il tartufo esalta sempre la pasta fatta in casa, meglio se all’uovo, condita semplicemente con del burro (anche qui è d’obbligo citare i celebri tajarin piemontesi). Altra ghiottoneria da tartufo è il risotto, purché semplice e non arricchito da altri condimenti prevalenti (inclusa la panna). Ricordiamo inoltre che il tartufo bianco non va cotto, mentre quello nero può anche consumarsi dopo particolari cotture.
Ci piace riportare quanto afferma il grande Gualtiero Marchesi nel suo piccolo Codice del Buongustaio sui tartufi bianchi e tartufi neri: “E’ ozioso volerne stabilire la graduatoria: troppo diversi per essere posti in competizione, il tartufo bianco e quello nero son simili, è vero, per natura, ma la gastronomia ne ha distinto le funzioni assecondando le loro differenti caratteristiche. In effetti, mentre il tartufo bianco ci inebria col suo profumo agliaceo, inconfondibile e incontenibile, e una volta portato alla bocca quasi vi si scioglie, il tartufo nero ha un profumo più tenue e libera il suo gusto sottile (erbaceo e piccante) durante la masticazione, cui offre dolce resistenza (detto altrimenti, risulta “al dente”). Il tartufo bianco ha la precipua funzione di condimento: come gli aromi più intensi (quali lo zafferano o il curry) sovrasta ogni altro sapore e pervade di sé l’intero piatto. Il tartufo nero funge invece da accompagnamento o guarnizione: meno prepotente del bianco, sta sulle sue, convive con gli altri sapori e lascia che essi esprimano la loro individualità; alla pietanza di cui è chiamato a far parte regala il suo gusto elegante, che la completa e la nobilita. A differenza del tartufo bianco, quello nero può inoltre essere cotto senza che le sue caratteristiche organolettiche risultino compromesse. Il tartufo nero non è il parente povero di quello bianco, ma ha tutt’altre mansioni gastronomiche”
Gli esperti consigliano di non usare tartufo su molte portate di uno stesso pranzo/menu, ma solo su uno, perché il profumo è così rilevante che potrebbe facilmente nauseare o comunque non mostrarsi più piacevole se si eccede. Il tartufo infatti ha un profumo caratteristico, che a nasi non particolarmente allenati ricorderà quello del gas. Per molti è un odore terribile, che essendo associato a qualcosa di non commestibile non rende i tartufi invitanti. L’odore del tartufo sarebbe dovuto, secondo ricerche molto recenti, all’azione di batteri che si troverebbero all’interno del peridio, e che produrrebbero bismetiltiometano e dimetilsolfuro.
Nella scelta del vino da sorseggiare in abbinamento con piatti al tartufo, si seguirà essenzialmente il principio di sceglierlo profumato e morbido, visto il rilevante profumo del fungo, decisamente superiore a quello di altri funghi. Ottimi i rossi non invecchiati, ma anche i bianchi non troppo strutturati andranno bene.
Concludiamo con qualche curiosità: in realtà non è il tartufo a odorare di gas ma è il gas a odorare di tartufo. Bisogna sapere infatti che il gas naturale è inodore, ma essendo pericoloso bisognava fare in modo che la sua presenza nell’aria fosse avvertita: si è pensato allora di aggiungere al gas composti simili a quelli del tartufo.
Inoltre, spesso ci si interroga sulla composizione nutrizionale del tartufo: 100 g apportano appena 30 kcal, di cui 83% di acqua, 0,25% di carboidrati, 4,5% di proteine, 2,10 %, di grassi e 8,4% di fibre, insieme a diversi sali minerali.
Alcuni anni fa è stato prodotto l’aroma di tartufo per sintesi chimica; la sostanza ottenuta è tossica ma più stabile rispetto a quella naturale, per cui si adatta a comporre preparati (olio, burro, formaggi, creme, salse, ecc.) che sanno di tartufo e che ingannano certamente coloro il cui naso non è esperto di tartufo. E’ una truffa consentita dalla legge, che consente di dichiarare che un prodotto è al tartufo (bisogna leggere allora bene l’etichetta e accertarsi che vi sia la dicitura che conferma che si tratta di aroma naturale di tartufo).
Note bibliografiche
- Tonzig Marrè, Botanica speciale, Ed. Ambrosiana
- L. Veronelli, Bere giusto, Ed. Mondadori
- G. Marchesi, Il Codice del Buongustaio, Ed. La Biblioteca dell’Europeo
- AA.VV., Merceologia degli alimenti, Ed. AIS
- AA.VV., Tecnica dell’abbinamento cibo – vino, Ed. AIS
Photo by Giorgia Nofrini
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