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A Pasqua sulle tavole italiane non volano solo colombe, ma anche tante altre specialità tradizionali: scopriamo anche trecce e ciaramicola umbra
“Sogno qualcosa di buono, che mi illumini il mondo, buono come te”: è con le celebri parole della canzone Il Volo di Zucchero Fornaciari che vi accogliamo ad ali spiegate tra le più belle e simboliche “forme del gusto” tipiche del mese in cui ricade la Pasqua.
È la colomba, che al sol osservarne il profilo rivela i suoi messaggi e significati metaforici tra salvezza, speranza, misericordia e rinnovamento della fede. Rappresentativa dello Spirito Santo, la prima colomba bianca è quella citata nel libro della Genesi, colei che si reca con un ramoscello d’ulivo nel becco ad annunciare a Noè la fine del castigo divino. E il buongusto italiano ha provveduto nei secoli ad elaborare in questa forma tante dolci specialità, a partire dal capolavoro pasquale per eccellenza, La Colomba, colei che vola su tutte le tavole nazionali nella domenica più attesa della primavera.
Dalle origini ancora oggi contese tra Lombardia e Veneto (sostenendo che potrebbe trattarsi di un’evoluzione della fugassa locale, di cui parleremo nella seconda parte di questo articolo in uscita domani), è anche vero che le principali leggende sono legate al territorio pavese, dove pare se ne producessero già prima dell’anno Mille, ai tempi della dominazione longobarda. Inoltre, il legame fra la colomba e la città di Milano si è consolidato negli anni ’30, quando il pubblicitario Dino Villani ne suggerì la produzione industriale alla Motta così come la conosciamo oggi, per riuscire ad utilizzare i macchinari per ottenere il panettone anche in un’altra stagione. Dopotutto anche il processo produttivo della colomba è similare, laborioso e consistente in ben tre processi di lievitazione e maturazione dell’impasto.
Ma andando “oltre la colomba”, non si può trascurare la coesistenza di tante altre tradizioni territoriali che nel periodo pasquale portano a sfornare diverse specialità lievitate dolci. A partire dalle brioche tipicamente intrecciate, cotte in forma di trecce di allungata oppure adagiate all’interno di stampi a ciambella (particolarmente ricorrenti a Pasqua in quanto la forma richiama il continuo rinnovarsi della vita, da cui il collegamento con la Resurrezione di Gesù), che costituiscono una tradizione non scritta ma che accomuna le cucine nazionali da nord a sud.
Mentre verso il settentrione si tende anche ad arricchirle con frutta secca, uvetta, canditi e/o spezie, nelle regioni centro-meridionali è frequente trovarvi infilate in superficie delle uova sode, ad incrementarne la relazione con la festività. Le brioche intrecciate ricordano molto la Challah, pane tipico della cultura ebraica consumato nei giorni di riposo (ma non nel giorno dei festeggiamenti della loro Pasqua – Pesach – quando vige l’obbligo di nutrirsi di solo pane azzimo non lievitato).
Regione ricca di dolcezze pasquali è l’Umbria. Tipica di Perugia e dintorni (ma non solo) è la ciaramicola o ciaramiqula (riconosciuta PAT, Prodotto Tradizionale Agroalimentare dalla Regione Umbria), un dolce davvero simpatico e attraente sin dal suo aspetto. Il nome deriverebbe da ciara, cioè “chiara”, “bianca”, o secondo altri da “ciarapica”, nome che indicava la cinciallegra, uccellino tanto colorato simbolo del risveglio primaverile. In passato rappresentava l’omaggio che le ragazze donavano al proprio fidanzato nel giorno di Pasqua.
Si tratta di una ciambella il cui impasto è fatto di farina, latte, burro (in passato strutto o sugna), uova, scorza grattugiata di agrumi, lievito per dolci. Nell’impasto è caratteristico il colore rosso, evidente al taglio delle fette, donato dall’aggiunta all’impasto del liquore Alchermes (noto in pasticceria perché rosso grazie all’aggiunta di polvere di cocciniglia – da cui ne deriva il nome in spagnolo - profumato e poco alcolico, adatto anche ai dolci per i piccoli). Ma il bello della preparazione viene dopo aver sfornato la ciambella, perché è a questo punto che la superficie viene spalmata con della meringa italiana ben ferma, bianchissima, con la quale si formano cinque piccoli rilievi che simboleggiano i cinque quartieri della città capoluogo di regione.
Il tutto torna quindi nel forno, dopo un’abbondante pioggia di codette e corallini multicolori, per far sì che la meringa diventi più soda e si asciughi, conservando sempre il colore bianco, per cui tanta attenzione perche non risulti “abbronzata” dalla gratinatura (in questo caso non ricercata). A completamento del riferimento alla città di Perugia, il bianco della meringa e il rosso del dolce richiamano i colori dello stemma cittadino, mentre i colori dei corallini superficiali (rosso, blu, i cinque rioni della città, anche i colori dei corallini e codette insieme al bianco della superficie fanno riferimento ai colori distintivi dei cinque rioni (bianco, rosso, verde, blu, giallo). La ciaramicola è ottima consumata con vini dolci tipo Vin Santo, ma non sfigurano un buon tè o il caffè e persino il cappuccino a colazione.
Note bibliografiche
- M. Duranti Le vetrine di Sandri. Arte e storia della più famosa pasticceria umbra, Fabbri editore
- G. Corsi Un secolo di cucina umbra – Le ricette della tradizione, Ed. Porziuncola
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