La grappa

L’acquavite di vinacce italiana che riscuote sempre più successo anche all’estero: ecco come nasce e come si produce

La grappa

Quando si parla di grappa (acquavite di vinacce, diversa quindi dall’acquavite di vino, come ad es. il brandy) si pensa subito alle montagne del Nord Italia (Veneto, Piemonte e Friuli in particolare), caratterizzate da clima freddo e da lavori molto faticosi, i quali sia che si svolgessero all’aperto (agricoltura, strade, acquedotti, ecc) che al chiuso (nei classici capannoni industriali), richiedevano che il lavoratore fosse corroborato con una bevanda molto alcolica e non necessariamente elegante ma grossolana. Una bevanda quindi umile come colui che la beveva. 

Questo era, in buona sostanza, la grappa di tanti anni fa. Oggi le cose sono cambiate e la grappa è un distillato di qualità che ha conquistato il mondo, tanto che in base alle norme UE può essere chiamata grappa solo se prodotta in Italia; se prodotta altrove non può essere chiamata grappa, per cui non esiste grappa francese, tedesca o di altre nazionalità.

Il nome grappa deriverebbe dal lombardo “grapa”, dal piemontese “rapa” o dal veneto “graspa”, termine usato per indicare quel che resta nella botte dopo la svinatura, cioè graspi (o raspi), bucce e vinaccioli (semi); al Nord Italia i dialetti citano graspa (con riferimento al graspo o raspo o rachide del grappolo), sgnapa, grapa, branda ma sempre per indicare l’acquavite di vinaccia. Secondo altri estimatori la parola grappa deriverebbe dal tedesco “schnaps” che significa distillato.

Non ci è dato sapere chi abbia inventato la grappa, mentre di certo antico è il procedimento della distillazione (distillare in latino vuol dire gocciolare due volte) necessario per produrre la grappa, noto da tempi remoti, a partire dagli Egiziani (4000 a.C., quando un uomo di scienza di nome Cleopatra – come la famosa regina – costruì i primi alambicchi per distillare), per proseguire poi con Romani e Medioevo, ma era utilizzato essenzialmente per distillare oli essenziali dalle piante medicinali. Esistono però documenti e reperti i quali dimostrano che la distillazione era nota in Mesopotamia già nel VII-VI sec. a.C., applicata al vino solo a partire dal XII sec. d.C. in poi.

Fino al 1336 si ritrovano soltanto citazioni di acquavite di vino e non di vinaccia; è solo da tale anno che il frate Atanasio Kircher e il confratello Francesco Terzi Lana producono l’acquavite a partire dalla vinaccia; nel 1661 Giacomo Sachs di Lipsia riporta per la prima volta nel suo trattato sulla Vitis vinifera la distillazione delle vinacce. Va però detto che in documenti del 1400 e 1500 si trova traccia di commercio di acquavite di vinaccia sia da parte dei friulani che dei veneti, verso il mercato olandese. L’ipotesi più fondata, anche se avvolta da leggenda, circa la nascita dell’acquavite di vinaccia si basa sugli usi contrattuali tra padroni e servi, nel senso che al padrone della terra andava il vino, ai servi la vinaccia

Costoro con tale scarto enologico producevano il cosiddetto vinello per il proprio consumo (un vino molto leggero e appena colorato, ma comunque tale da soddisfare le semplici pretese dei servi). Probabilmente un servo fece con il vinello ciò che il padrone faceva col vino, cioè distillò il vinello, ottenendo l’acquavite di vinaccia, guardandosi bene dal dirlo al padrone perché costui avrebbe preso anche le vinacce per fare la sua acquavite! Senza dubbio il palato aristocratico non l’avrebbe gradita, ma l’avrebbe certamente rivenduta, guadagnando come al solito. Altra leggenda vuole che un legionario romano del I se. a.C., assegnatario di terre agricole in Friuli, sia stato il primo a distillare le vinacce, usando un alambicco rubato in Egitto, dove aveva combattuto ed appreso la tecnica di distillazione. Altri studiosi sostengono, invece, che in Friuli la grappa sia stata prodotta sin dal 511 d.C, grazie ai Burgundi provenienti dall’Austria.

La grappa a termine di legge è il prodotto derivante dalla distillazione diretta delle vinacce con l’esclusione dell’impiego di liquidi ricavati per spremitura, dal lavaggio e dalla diffusione con acqua delle medesime. La definizione tutela i consumatori dai prodotti simil grappa ottenuti dalla distillazione dei vinelli, dai quali si ottengono dei superalcolici (acquavite vinica per la legge) con caratteristiche diverse (molto inferiori) a quelle della grappa. 

Ma cosa si intende per vinaccia (molti usano il plurale vinacce)? Di regola è l’insieme di raspi, bucce e vinaccioli, anche se nella realtà le vinacce con i raspi non sono accettate dalle distillerie, in quanto da tali elementi passano alla grappa sostanze che peggiorano le caratteristiche organolettiche. Le vinacce possono essere vergini (sono quella che non hanno alcol ma solo zuccheri; derivano dalla vinificazione dei vini bianchi, per i quali le vinacce si separano dal mosto prima della fermentazione (in modo da non far passare nel vino le catechine e le procianidine polifenoli negativi per la stabilità dei vini bianchi); fermentate, contenenti alcol e derivate dalla lavorazione dei vini rossi, per i quali la fermentazione avviene in presenza di bucce e vinaccioli, in modo da estrarre tutto il colore; semifermentate, contenente sia alcol che zuccheri,  derivate dalla lavorazione dei vini rosati e di quelli rossi leggeri di alcol. Il termine vinacce fresche si riferisce a quelle fermentate, le quali sono immediatamente destinabili alla distillazione, avendo in esse già alcol da distillare. Quelle vergini e quelle semifermentate devono invece essere insilate in vasche di cemento, silos di ferro rivestiti internamente di resine resistenti agli acidi della fermentazione, talvolta in tini di legno. 

La conservazione è necessaria perché gli zuccheri contenuti in queste vinacce si trasformi in alcol etilico, da distillare. La distillazione avviene nel famoso alambicco, apparecchio ideato da Discoride Cilicio che lo chiamava ambic (quindi non furono gli arabi a idearlo, anche se ad essi si devono molti perfezionamenti). L’alambicco è formato da: una caldaia (detta cucurbita, in cui si pone a bollire la vinaccia con acqua) con coperchio (detto elmo o duomo), un tubo (collo d’oca o cigno) che unisce il coperchio al refrigerante, un refrigerante (detto serpentina) immerso in un recipiente con acqua fredda per consentire la condensazione dei vapori di alcol e di altre sostanze da questo trascinate. Del liquido che verrà fuori dalla distillazione, il mastro distillatore elimina la prima parte (testa) e l’ultima (coda) in quanto contenenti composti velenosi, oltre che dannosi per la qualità organolettica della grappa (cuore). 

Questa selezione rappresenta la rettificazione della grappa: negli impianti industriali avviene in continuo, cioè senza fermare la distillazione, mentre in quella artigianale separando le tre fasi in modo discontinuo, cioè fermando l’alambicco per poi ricaricarlo. La grappa finale (cuore) vien fuori con un’elevata gradazione alcolica (per legge 40° - 86°), per cui deve essere diluita con acqua distillata per essere portata alla gradazione finale (per legge tra 38 e 60°) sotto il controllo della Guardia di Finanza per la tassazione degli alcolici.

Passando agli aspetti pratici diciamo subito che in commercio si trovano: grappa giovane o bianca (incolore, non invecchiata, gusto secco e pulito), grappa riserva o stravecchia (almeno 24 mesi di invecchiamento in legno, colore giallo paglierino – ambra, gusto più morbido e delicato), grappa aromatica (fatta con vinaccia di uva aromatica come Moscato), grappa aromatizzata (aggiunta di erbe, radici frutta che cedono odori e profumi, come mirtillo, genziana, luppolo e altri), grappa monovitigno (vinaccia di un solo vitigno), grappa torbata (affumicata, in modo simile a quanto accade sul  whisky). Odori e profumi si riscontrano anche nelle grappe non aromatiche e in quelle non aromatizzate, purchè invecchiate nel legno (frassino, rovere in particolare), il quale cede sentori di frutta esotica, mela, banana, nocciola, fragola, giacinto, pesca, rosa, salvia, tabacco, liquirizia, vaniglia, spezie varie.

La degustazione della grappa deve avvenire sempre fuori dai pasti, a bocca pulita, a piccoli sorsi, a temperatura ambiente (18-20°C) e usando il bicchiere chiamato “mezzo tulipano”, di vetro sottile, leggermente panciuto e con l’apertura stretta; molti però optano per calice lungo e stretto. Con questi bicchieri osserveremo il colore, la limpidezza, odori e profumi, sapore trattenendo la grappa in bocca e schiacciandolo contro lingua e palato per qualche secondo, in modo da consentire al calore di far emergere odori e profumi retro nasali. Accostiamoci perciò con rispetto alla grappa, bevanda semplice divenuta aristocratica, pensando a piccoli sorsi di qualità anche per un buon brindisi!

Note bibliografiche

  • Mensile Il Mio Vino, Ed. Il Mio Castello
  • Come fare la grappa, Ed. Demetra
  • Vaccarini – Pillon, Il grande libro della grappa, Ed. Hoepli

Scritto da Luciano Albano

Laureatosi nel 1978 con lode in Scienze Agrarie, presso l'Università di Bari, si è specializzato nel 1980 in "Irrigazione e Drenaggio dei terreni agricoli" presso il C.I.H.E.A.M. (Centro Internazionale di Alti Studi Agronomici del Mediterraneo) di Valenzano (Bari), ha conseguito nello stesso anno anche l'abilitazione alla professione di Agronomo. Fino al 1/3/2018 ha lavorato alla Regione Puglia nell'Ufficio Territoriale di Taranto, quale Responsabile della P.O. "Strutture Agricole". Appassionato di olio e vino ha conseguito il Diploma di Sommelier AIS nel 2005 e ottenuto nel 2008 l'Attestato di Partecipazione alle Sedute di Assaggio ai fini dell'iscrizione nell'Elenco Nazionale di Tecnici ed Esperti degli oli di oliva extravergini e vergini. Fino al 2018 è stato iscritto all'Albo Provinciale dei Dottori Agronomi e Forestali e come CTU presso il Tribunale di Taranto. Ama il food & beverage e ne approfondisce i vari aspetti tecnici, alimentari e storici

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