Lo dimostrano i risultati di un’indagine promossa in occasione del Breadstick Day 2018
Un professionista forte delle più diverse esperienze che oggi spicca per l’originalità con cui racconta il mondo del vino
Gianni Usai è, in ordine soltanto alfabetico: comunicatore, designer, ingegnere mancato, esperto di vini, lettore curioso, lungimirante, sardo, uomo schietto. Già collaboratore del pubblicitario Emanuele Pirella alla Cinzano, spicca per l’originalità con cui racconta il vino, i territori e i produttori e per una visione olistica del buon bere, che lo ha portato a maturare il progetto Y7 The Wine Meditation Room.
Come nasce in lei il desiderio non solo di gioire del vino, ma di raccontarlo?
Non sono un talebano del vino, uno di quelli che cavilla sulle annate, ma un appassionato, un entusiasta. Ho preso parte alla prima vendemmia all’età di cinque anni, nella mia Sardegna e sento il vino maniera ancestrale e viscerale. Questo legame mi ha fatto desiderare di far parte della grande famiglia del vino, portandomi poi a lavorare in questo settore.
Nel suo caso una passione spontanea e genuina ha incontrato la disciplina, i modi e gli strumenti del design e della comunicazione. È stato difficile coniugare “fuoco enoico” e razionalità professionale?
Il vino è una passione senza compromessi, che non conosce le mezze misure, e che in me è forte. Vedere che vari professionisti si erano impadroniti di un giocattolo che sentivo mio, mi ha spinto a impegnarmi in modo diretto, anche attraverso gli strumenti del mio mestiere.
Come ha affrontato l’affascinante complicatezza di raccontare a parole la non verbalità del vino?
Facendo appello al mio bagaglio culturale. Le faccio un esempio: se voglio parlare di un vino interessante, lo descrivo come la doppia elica del DNA, oppure come un piano sequenza del regista Angelopoulos, dove c’è un inizio, un picco e una fine. È una sfida, perché bisogna fare appello a tutta la propria fantasia e all’esperienza, senza cadere nel ridicolo. Senza dimenticare l’incontro, che si può anche trasformare in scontro, con i produttori e i vari soggetti che si occupano di questo mondo e che sanno anche essere tenaci, totalizzanti e non sempre intellettualmente onesti.
Pensando a quanto di vino si parla, anche favoleggiando oltre ciò che una determinata bottiglia può offrire, mi domando: non sarebbe meglio eliminare le etichette, dotando le bottiglie di semplici codici alfanumerici che permettano di identificare il prodotto? Insomma, non sarebbe meglio far parlare i vini con voce propria?
Pensi a quelle degustazioni alla cieca in cui tanti sommelier sono stati fregati da un celebre vino da tavola in cartone. Oppure alle varie etichette celebri, ma sopravvalutate. Non voglio creare discussioni con le varie associazioni di categoria e mi limito a dirle che, oramai, evito di confrontarmi con chi non è disposto a dialogare, non accetta critiche o non vuole nemmeno parlare del proprio vino.
Con la grande conoscenza che ha acquisito negli anni, ha maturato delle preferenze spassionate?
Vorrei rimanere un po’ “laico” e dire che sono sempre alla ricerca di rimanere meravigliato. Scoprire in Trentino il Teroldego rosato, la sua intensità e, mi scusi la parolaccia, eleganza, è stata per me una grande gioia. Mi attira la ricerca di vini poco noti ma di qualità, che il nostro territorio sa regalare. A queste scoperte ho dedicato una rubrica intitolata Jazz Wine, nella quale ho raccontato vini e produttori i modo originale.
L’incontro con chi il vino fa è sempre interessante, anche se la personalità del produttore non deve pesare più della qualità del suo prodotto…
Ho sempre trovato interessante l’incontro con i produttori e proprio a due di questi devo l’incoraggiamento a scrivere di vino. Uno era Baldo Cappellano, grande cantore del vino, nipote dell’inventore del Barolo Chinato, l’altro Marco De Bartoli, scopritore del Passito di Pantelleria.
Quali esperienze non formali ritiene significative nella costruzione del suo modo di pensare e raccontare?
Ci sono due libri per me fondamentali. Mercanti di moda. Processo agli stilisti di Sean Blazer, che smonta i meccanismi di un settore diverso da quello del vino, ma che è applicabile a tutti i settori merceologici. Wabi Sabi per Artisti, Designer, Poeti e Filosofi, dell’architetto americano Leonard Koren. È questo un testo difficilissimo, che tengo sempre sul comodino e consulto frequentemente, trovandolo ogni volta sempre più difficile e affascinante. Credo poi importanti gli epistolari che intrattengo con Seth Godin, guru americano del marketing, ed Andrew Wylie, agente letterario di molti tra i più famosi scrittori mondiali.
Tra le sue fonti d’ispirazione, so che il libro di Koren ha un posto particolare.
Esatto. Ha sicuramente ispirato il mio Y7 The Wine Meditation Room, un ambiente modulare di qualità studiato per la degustazione di vini d’eccellenza. Tutto è nato un pomeriggio assolato d’agosto. Mi trovavo in un agriturismo all’ombra del monte Minerva e, d’un tratto, ho realizzato che all’estero il vino italiano si presenta “nudo”. Le ambientazioni tipiche sono delle tristi hall d’albergo, con tristi tovaglie e tristi sputacchiere. Se va bene, ci sono delle misere descrizioni del produttore e nulla di più. Visto che siamo il paese del bello, mi sono detto: perché non creare una scenografia di pregio, in cui si può sorseggiare un vino ammirando un’opera di Vedova o Sironi?
Perchè “7”?
È il numero della perfezione, che combina i quattro elementi terrestri con la triade divina.
Quali caratteristiche hanno i mobili pensati per questo suo progetto?
Si tratta di ebanisteria d’alta classe, realizzata con legni pregiati quali il wengè e il macassar e intarsi realizzati con legno di botti dismesse. Quest’ultimo elemento ci porta nell’ambito del wellness, perché il vino, elemento vivo, che ha impregnato negli anni le botti ha un suo potenziale energetico. Anche se non c’è pretesa di scientificità.
Solitamente evito la domanda standard che si trova alla fine di tantissime interviste, cioè quella che riguarda il futuro. Visto però che il tristo periodo storico che stiamo vivendo ci inchioda all’attimo presente, mi faccio violenza e le chiedo: Quali buoni propositi deve fare il settore del vino in vista di una speriamo prossima generale ripartenza?
Il settore dovrà sicuramente puntare sull’informazione. Su dieci etichette, solo una fa vera informazione e il territorio spesso non è coinvolto, cosa che gli australiani fanno già con successo. Ci vorrà anche un po’ di audacia: il Grasso Bastardo è un vino cileno, che porta un originale nome italiano, perché nel mondo c’è fame d’Italia. Anche se noi non ci pensiamo. Il tema “Italia” non è sicuramente esaurito e chi lo dice è in malafede.
Scritto da Mauro Sperandio
Nato a Venezia nel 1980, diplomato al liceo classico, laureato in Scienze politiche all'Università di Padova, vive tra i monti dell'Alto Adige.
Padre e compagno felice, copywriter e storyteller, si occupa di scrittura creativa per le aziende, di turismo e di pubblicità. È curioso di ogni cosa, ma con spirito critico. Ama intervistare persone felici di quel che fanno, cercando di imparare da ciò che azzeccano.
Conosco Usai da sempre e quindi non sono imparziale nel giudizio. Dice quello che pensa, in buon italiano, si differenzia dalle mode correnti, inutili e talvolta velenose. Progetti ambiziosi, non facili e proprio per questo affascinanti come Y7. Con riquadro.com condividiamo speranze di marketing e comunicazione. Complimenti anche all'intervistatore Sperandio Claudio Riolo - palermilano