Bioplastiche dal cibo

Sono sempre di più i ricercatori che si dedicano alla ricerca di materiali alternativi a partire dagli scarti degli alimenti

Bioplastiche dal cibo

Cosa sono le “bioplastiche”? Si tratta di biopolimeri ottenuti da scarti agroalimentari, e la loro messa a punto è sempre più al centro dell’attenzione degli studiosi di università e istituti di ricerca. Una nuova strada, certamente lunga da percorrere, ma che già inizia a mostrare i primi risultati affinché lo spreco si trasformi in risorsa, attraverso la trasformazione in un materiale biodegradabile con proprietà molto simili (ma molto meno dannose) delle plastiche tradizionali. 

Già lo scorso anno vi abbiamo parlato degli scarti delle arance come risorsa (https://www.prodigus.it/articoli/food-news/scarti-delle-arance-come-risorsa): il pastazzo, un sottoprodotto della trasformazione degli agrumi, è stato oggetto ad esempio di alcuni studi del Politecnico di Milano per riuscire a produrre mediante le nanotecnologie l’Orangefiber, un vero e proprio tessuto.

L’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova sta invece sviluppando un packaging in bioplastica prodotta con gli scarti di frutta e verdura, in un’ottica di economia circolare: il primo prototipo sperimentare è stato realizzato interamente da scarti di carciofi. L’Università di Modena e Reggio Emilia si sta concentrando anche lei sugli “avanzi” ortofrutticoli, concentrandosi sulla realizzazione di pellicole, film e gel protettivi del cibo interamente commestibili

E ancora, il Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pozzuoli, in collaborazione dell’Istituto di Chimica e Tecnologia dei Polimeri, si sta concentrando su come trasformare le bucce di pomodoro in eco-plastica. Ma la novità più recente interessa gli scarti delle banane, che hanno catturato l’attenzione dei ricercatori australiani dell’Università del New South Wales (Sydney): l’attuale frutto del banano costituisce solo il 12% della pianta, con il resto che viene scartato come rifiuto. 

Ogni pianta di banane entra in produzione dopo 14 mesi, periodo nel quale l’albero forma anche due polloni, uno chiamato “figlia” (che farà frutti 12 mesi dopo la pianta principale) e l’altro chiamato “nipote” (che fruttificherà invece dopo 2 anni). Ogni ceppo produce un solo casco di banane alla volta, per questo una volta raccolto si preferisce procedere al taglio del fusto, lasciato poi nei campi con la funzione di fertilizzante organico per il terreno. Ciò rende l’attività di coltivazione del giallo frutto particolarmente dispendiosa rispetto ad altre colture, e i suoi usi alternativi per produrre bioplastiche potrebbero mostrarsi estremamente utili e rivelarsi economicamente vantaggiosi anche per i diretti coltivatori.

Le idee e i test dunque si moltiplicano, e il loro approccio è finalmente quello giusto, rispetto a tante invenzioni ben poco sostenibili frutto del passato: la chiave sta nell’entrare sempre più nell’ottica (già risaputa, ma sottovalutata) per cui nulla si distrugge, e per questo ogni scarto merita di trovare una via concreta per trasformarsi in preziosa risorsa per l’umanità. 


Fonte: https://ilfattoalimentare.it/bioplastiche-agrumi-banane.html

Scritto da Viviana Di Salvo

Laureata in lettere con indirizzo storico geografico, affina la sua passione per il territorio e la cultura attraverso l’esperienza come autrice televisiva (Rai e TV2000). Successivamente “prestata” anche al settore della tutela e promozione della salute (collabora con il Ministero della Salute dal 2013), coltiva la passione per la cultura gastronomica, le tradizioni e il buon cibo con un occhio sempre attento al territorio e alle sue specificità antropologiche e ambientali.

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